Dopo il successo di “Favolacce”, non ci si poteva aspettare qualcosa di molto diverso da ciò che nelle ultime settimane è stato proiettato nelle sale italiane. I fratelli d’Innocenzo tornano al cinema con “America Latina”, un dramma che definire thriller sarebbe troppo poco esaustivo. L’ho visto sola, in un multisala nel centro di Milano. Non lo facevo da un po’ e non so se sia stata una buona idea riprendere questa mia vecchia abitudine proprio di fronte alla sconvolgente storia ambientata a Latina e scritta e diretta dai due registi romani. Poche file, io nella penultima, laterale, accanto a un corridoio da cui ho temuto, verso la conclusione, spuntassero i fantasmi peggiori. Perché “America Latina”, sulla scia di “American Psycho”, gioca con i nostri demoni interiori, culla la nostra psiche verso la spaventosa scoperta dell’ego. E lo fa scegliendo Elio Germano a capitanare il cast, che vanta, tra gli altri, i nomi di Maurizio Lastrico, Astrid Casali, Carlotta Gamba e la meravigliosa Sara Ciocca, che regala l’interpretazione forse più intensa dell’intera pellicola.
È andata così: ho preso posto sulla mia poltroncina, che ho compreso, con mio grande sollievo, si potesse distendere leggermente- e con non poco rumore- per accogliere la mia schiena. Ognuno ha il suo modo del tutto personale di selezionare i film da godersi nella confusione- o, al contrario, nella solitudine- di una sala cinematografica. Il mio è quello di affidarmi a qualcosa che già conosco; che sia il regista, gli attori o anche solo la sicurezza che mi dà apprendere che si tratta di una coproduzione italo- francese. L’animo di Amèlie Poulain che alberga dentro di me, in quei casi, non può fare a meno di incuriosirsi e sentirsi al sicuro. Protetta nella sua comfort zone. Fatto sta che io avevo preso la mia decisione ed ero lì, tutta emozionata, nella fila H di una piccola stanza magica. La stessa fila che più volte, durante i 90 minuti densissimi di “America Latina” ho desiderato abbandonare, spinta da un’inquietudine strana che mi si era attaccata addosso e non si staccava più. Ho fisicamente percepito ogni sensazione; mi muovevo sulla sedia morbida, cercando l’ossigeno in mezzo ai colpi di scena. Mai prima di quel momento mi era successo di sentirmi appartenuta da un racconto su un maxi schermo. Appartenendogli, lasciare veramente la mia comoda posizione era fondamentalmente impossibile. Ho continuato a tenermi sospesa in mezzo alla disperazione di un uomo che si perde cercandosi.
Germano è magistrale, come sempre, nei panni di un dentista di mezz’età, sposato e con due figlie, che conduce una vita apparentemente tranquilla. Un amico fidato, un bar in cui buttare le sere nell’ebrezza di alcol e sigarette, come ragazzini alle prime esperienze di ribellione agli standard esistenziali, uno studio a cui tornare, ogni mattina, con la certezza con cui si guarda a una routine confortante. Massimo- questo il nome del personaggio principale- trova, inaspettatamente, una bambina ferita e legata nella sua cantina. È in quell’attimo tormentato che si insinuano in lui il dubbio e la paura. Il mistero della sua identità, più sconosciuta di quella della ragazzina nascosta dentro la sua casa, e lo spavento indomito di essere quello che non ci si aspetta. Si configura, davanti al suo sguardo allo stesso tempo angosciato e terrificante, la possibilità di essere qualcosa di totalmente differente rispetto al ruolo che ha sempre ricoperto. Si interroga, cerca risposte, si tortura nell’indagine dell’ignoto. Fino a che, distrutto, abbandona la gabbia dei suoi spiriti maligni, delle parti minuziosamente celate di sé, non raggiungendo, comunque, la libertà. Un’altra trappola lo attende, anche se meno inesorabile, di certo, della prima. È questo il destino di ogni essere umano? Restare ingabbiato negli inganni labirintici del proprio cervello? Quand’è che si inizia ad avere timore di sé? Quando si smette di affidarsi alla propria volontà e alla propria predisposizione a vivere? Cosa succede quando la memoria non rappresenta più la chiara e lineare immagine del passato, bensì un buco nero da cui venire inghiottiti nella ricerca della verità? Me lo sono chiesta e mi sono immaginata pelata, con un pizzetto rosso a incorniciarmi il viso e gli occhi diabolici di Massimo. Io, che odio perdere il controllo di me stessa e della realtà che sottostà alla mia capacità di azione, non ho sopportato la terribile idea di non possedere i ricordi e nemmeno l’attualità delle cose, trascinata dalla forza del vuoto che si prova quando il riflesso nello specchio prende le sembianze di uno sconosciuto.
Un sogno e un incubo dai contorni indefiniti: i fratelli d’Innocenzo riescono, ancora una volta, nell’impresa di dipingere una quotidianità cruda e concreta, trasmettendo il senso di turbamento che disperdersi nei meandri del proprio inconscio può provocare.