Oggi, dopo pranzo, mi sono acceso una sigaretta. Ho preso il pacchetto dalla giacca, dove l’avevo lasciato ieri, ho messo l’ultima sigaretta in bocca e l’ho accesa col fornello della cucina, perché non trovavo l’accendino. E subito dopo il primo tiro, appena ho sentito il fumo nei polmoni, ho desiderato che si consumasse. Giuro, non vedevo l’ora di spegnerla. Per questo non credo di aver davvero voluto fumare, e forse, per questo, non posso davvero definirmi un fumatore.

Secondo questo ragionamento, però, non posso definirmi tante cose. Non posso definirmi uno studente, perché non vedo l’ora di finire di studiare. E probabilmente neanche lettore, perché ho sempre fretta di arrivare all’ultimo capitolo. E sono qui, seduto in cucina, e questa stanza non è più un luogo da quando ho finito di mangiare e non potrà tornare a esserlo finché non cucinerò di nuovo e comincio a pensare che anche questa sedia, su cui ora è poggiato il mio culo, presto entrerà in un oblio a metà fra il ricordo di quando il mio culo era poggiato su di lei e le aspettative del prossimo culo che si poggerà e questo oblio vale sicuramente anche per tutte le cazzo di cose in questa cazzo di cucina, che non sono più davvero cose, ma soltanto fotografie e propositi, nell’emozione di ciò che ancora deve succedere e nella nostalgia di ciò che è già successo.

Ai momenti che ho dato per scontato, cioè tutti: io vi darò giustizia.

E ho di nuovo una gran voglia di sigarette. Però rimango seduto. E, quando mi alzerò, sarò in piedi. Quando metterò le scarpe, farò in modo che siano ben allacciate, e che non volino da nessuna parte. Anche la giacca deve essere ben abbottonata, e non deve andare da nessuna parte. E, chiusa la porta di casa e scese le scale, passo dopo passo, avanzo.

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