Auerhaus
di Neele Leana Vollmar
film vincitore al Giffoni Film Festival
sezione Generator +18
Premessa: Io non sono capace di fare l’analisi di un film, non sono capace di parlarne nel senso comune del termine, insomma non aspettatevi una recensione. Non aspettatevi di capire qualcosa della trama, non aspettatevi un commento organico. Per fare cose di questo genere avrei bisogno di conoscere tutta la filmografia del regista, guardare il film numerose volte, leggere il libro da cui è tratto, raccogliere quante più informazioni possibili dietro la nascita di questa pellicola. Non ho voglia di fare tutto questo e non ho voglia di prendere in giro il lettore cucendo fra loro pensieri vuoti e inutili, giusto per scrivere qualcosa, spacciandoli poi per asserzioni oggettive. Perciò, aspettatevi di leggere solo frammenti di riflessioni più vaste, lampi di emozioni, note a margine di una recensione che non c’è. Aspettatevi di leggere qualcosa di scollegato, ma fortemente sentito, qualcosa che ha bisogno di essere condiviso.
Anche se in maniera più velata, Auerhaus possiede l’atmosfera misteriosa e tragica tipica di molti film tedeschi. Immaginate di trovarvi in un paesino sperduto della Germania, avvolti da una natura vorace e selvaggia fatta di steppe, laghi e foreste di pini. Isolati fuori e dentro dal resto del mondo. In questo contesto, i luoghi in cui le storie dei personaggi prendono vita sono più che semplici ambientazioni, ma forze vive che guidano l’animo dei protagonisti, che, per l’appunto, si sentono sperduti, non padroni del loro destino, come sottomessi a qualcosa di più grande. Tutto questo, in Auerhaus, fa da sfondo, è percepibile solo in maniera sottile, le peculiarità di questo film sono altre, ma ciò era bene metterlo in chiaro, soprattutto per avvisare animi sensibili e spettatori attenti.
Uno degli elementi che mi ha più coinvolto e colpito del film è l’animo travagliato del protagonista, Frieder, insieme alla sua mente brillante, eppure così contorta e folle. Anzi, è qualcosa di più specifico, è il suo coraggio. La sua follia dettata dal coraggio, dalla necessità di non provare più paura per nulla. Arrivare a poter compiere qualsiasi avventatezza, qualsiasi azzardo, qualsiasi sceneggiata, qualsiasi… gesto. Anche il più estremo.
Frieder è un depresso. E’ costantemente alla ricerca del brivido, quando non è sommerso dalla tristezza. I motivi delle sue condizioni non sono noti, forse certi generi di cose sono incomprensibili. Io ho le mie idee a riguardo. Frieder soffre la limitatezza, l’impossibilità di vivere a pieno qualsiasi cosa: le decisioni, le azioni, le emozioni. C’è sempre qualcosa che ci blocca. Frieder vuole l’onnipotenza. Vuole poter essere totalmente quello fa, quello che vive. Odia le banalità e le convenzioni. Anche se ci sguazza. E’ un personaggio complesso, ha l’indole del genio. Ha grandi talenti che possono far crescere molti frutti, i più belli, ma anche i più pericolosi, poiché crescono su i rami più sottili.
Auerhaus è meraviglioso, molto semplicemente, anche solo perché ci costringe a vedere ed accettare come possibilità l’idea che dei sedicenni decidano di trasferirsi in una fattoria abbandonata dove andare a vivere da soli, e che nessuno abbia nulla in contrario. E’ meraviglioso perché di fronte alla banalità e alla miseria delle nostre vite giovanili, mai così vuote di desiderio acceso e spirito di avventura come oggi, ci offre la visione di uno spettacolo manifesto dell’incredibilità della vita e del fatto che i LIMITI siamo noi stessi ad imporceli. Cosa avrebbero dovuto fare quei ragazzi in una città sperduta della Germania dell’est composta per lo più da manovali e boscaioli, così isolata che neanche la speranza era a portata di mano, rinunciare? Accontentarsi? Arrendersi? No. Essi decidono di vivere in un modo unico, insieme, traghettati dall’amore-preoccupazione per Frieder e dal suo carisma, imparano pian piano a crescere e ad affrontare le loro ombre. Nessuno di loro ne sarebbe stato in grado se Frieder non li avesse coinvolti in questa spirale di follia avventurosa, con i suoi gesti avventati e imprevedibili, in qualche modo si può dire che egli si sia sacrificato, abbia spinto l’acceleratore per mostrare ai suoi compagni che si può fare. Cosa? Prendere decisioni difficili. E vivere, vivere a pieno.
Voglio concludere così. Senza aggiungere molto. Solo alcune parole, non mie, che in qualche modo possano giustificare questa narrazione un po’ bizzarra: “Le opere d’arte sono di un’infinita solitudine; niente di peggio che la critica per avvicinarle. Solo l’amore può afferrarle, tenerle e giudicarle rettamente”.
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