“Kuro” di Joji Koyama e Tujiko Noriko (2017)
Getting heavier and how could she not be, when the eyes keep raining and the forest of a soul keeps growing, soon there won’t be any roof who could stand her, then holes will start to appear as if the roof is trying to breathe, and rain will get heavier as well and water will reach to the rooms muddling the memories in its way to crash into the woman on the balcony, and no…she won’t move!
Ci basta dire uno spazio per abitare le storie. Ci basta affidarci ai sensi, alle sinestesie. Ma dove finiamo se non rimane posto per noi né nelle parole, né nelle immagini?
Due personaggi: una donna, Romi, e un uomo, Milou. La vicenda prende luogo in Francia, dove la donna si prende cura dell’amante paraplegico accudendolo. Nel farlo sembrerebbe raccontargli una storia, un ricordo fiabesco di un passato in Giappone.
Kuro è un’opera sperimentale, ma così limpida che a prima vista non sembrano palesi i processi a cui veniamo sottoposti durante la visione. C’è una storia, o due, forse tre. Forse non c’è nessuna storia ma solo una bugia. Una memoria.
Ci sono due dimensioni nell’opera: quella visiva e quella uditiva. La prima è fatta di immagini diverse tra loro, il cui punto d’incontro è la pace dell’abbandono: una casa nella quale non vive nessuno, Romi che si prende cura del compagno paraplegico, i fiori, il suo lavoro al Karaoke. La seconda dimensione è fatta di parole pronunciate: il racconto di un passato personale si mescola ad aneddoti e storie mitiche, creando varchi e narrazioni che suonano totalizzanti e atemporali.
Questi due piani di esistenza procedono contemporanei parallelamente, spesso finiscono per riversarsi l’uno nell’altro, per accompagnarsi e tradirsi. Cosa accade? Allo spettatore non rimane che abitare lo spazio nel mezzo, una sorta di ricostruzione propria degli appunti di una vicenda che può essere o non essere avvenuta, che è vera o falsa o solo in parte affidabile. Un’architettura di senso. In questo Kuro dimostra di essere un film brillante, capace di rimanere dentro dopo la prima visione come un dubbio inespresso, una dimenticanza improvvisa, che suscita una sensazione di poco conto, ma fastidiosamente fissa.
Ciò che vediamo e ciò che sentiamo sono divisi o appartengono allo stesso piano di esistenza? Siamo in balia di narratori affidabili? Le storie procedono assumendo tinte e svolte perturbanti, accatastano elementi fuori posto, creano disagio e aspettativa di terrore. I registi riescono a mettere in dubbio persino le definizioni stesse; stiamo assistendo a un horror decostruito. Stiamo assistendo a un racconto di amore e sofferenza. Stiamo assistendo “alle cose”. In gioco c’è la ricerca di un senso nelle vicende e nelle immagini, di come si faccia di tutto per trovarlo e nonostante questo le dimensioni del dubbio e dell’inconoscibile ci trovino sempre, pronte a catapultarci nell’insensatezza.
Si potrebbe chiudere gli occhi e ascoltare senza guardare. O mettere il muto e fruire solo delle immagini. Verrebbero così alla luce altre storie ancora, con diversità peculiari. Ma i due registi scelgono di creare una frizione sincronizzandole nella durata del film, scegliendo questo contrappunto dell’assurdo che emerge man mano.
Mentre ci si trova nel mezzo di queste due dimensioni, che come falde si scontrano sollevando questioni e problematiche, ci si rintana nell’unico racconto possibile: quello che decide di costruire la mente, salvando i pezzi, scartando le immagini, unendo e separando, credendo di aver assistito a scene che non ci sono, dimenticandone altre appena trascorse. Kuro diventa sintesi di quel tradirsi che è l’esperienza quotidiana del vivere, ricordare, narrare.