Questa è una TURBORECENSIONE SUPERVELOCE e  funziona in tre stadi di sintesi.

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Qui quella con un livello di dettaglio leggermente superiore.


Qui invece, un’analisi più approfondita della pellicola.

Scegli la velocità che preferisci e buona lettura.

Questo concentrato di talento non è cosa che si vede tutti i giorni.

C’era una volta a… Hollywood è un film commedia/drammatico del 2019. Scritto e diretto da Quentin Tarantino con fotografia di Robert Richardson e montaggio di Fred Raskin.
Nel cast, tra gli altri, Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie.


È possibile la visione del film il 21 Giugno presso l’arena Teatini Cinema di Lecce.

TURBO

Un quasi placido (cosa insolita per Tarantino) e divertente ritratto della Hollywood di fine ’50 (non privo di licenze poetiche), che nasconde una delicata ma potente riflessione sul cinema.

Se si cerca un intreccio accattivante, la struttura molto lineare ed episodica può risultare indecisa o scricchiolante, nonostante il ritmo interno delle singole scene sia, come sempre, splendido.

Gli stilemi più ‘espliciti’ di Tarantino si ravvisano solo in parte e ciò potrebbe scoraggiare alcuni fan, ma il prodotto per quanto diverso vale assolutamente la pena e regala grandi momenti, se si sa dove guardare.

Consigliatissimo.

27/30

 

Il fantastico personaggio di Clint è il nostro cicerone oltre che la quota avventurosa della vicenda.

SUPERVELOCE

 

La nona fatica di Quentin Tarantino è un film apparentemente atipico per gli standard della sua filmografia. Una riflessione sul cinema in tutte le sue sfumature, che assomiglia più ad un discorso innamorato che ad una delle solite favole al cardiopalma dell’autore.

Nella pellicola si analizza la storia industriale e sociale della settima arte, ma anche il suo aspetto linguistico e quello recitativo, riflettendo su come le tre si influenzino a vicenda. Tutto questo macro si muove attraverso le micro vite dei due protagonisti, delle persone che essi incontrano e delle situazioni (più o meno assurde) che si trovano a vivere.

Il film parla di come si costruiscono le grandi narrative, ma sceglie di farlo tramite un racconto molto intimo, divertendosi a sfumare i tipi di registro che di solito si attribuiscono a queste due categorie di storie.

Lineare e limpido il dipanarsi degli eventi, con un ritmo quasi placido, disteso, pacato. La tensione c’è in piccole, intense misure e il tono è (apparentemente) più leggero, ma quando si torna nei territori ‘familiari’ del regista lo si fa in grande stile. Forse, a causa di questa struttura discorsiva, la storia rischia di apparire come un qualcosa che gira a vuoto e in un certo senso, può effettivamente non essere perfettamente ‘a fuoco’ sia dal lato narrativo che tematico.

Ma anche solo per la maestria del suo autore, pienamente visibile in ogni fotogramma, il prodotto vale assolutamente la visione. Possibilmente al cinema.

Buondì!

RECENSIONE

 

Quentin Tarantino è famoso al grande pubblico per molte cose.
Il suo uso compiaciuto e teatrale della violenza, i suoi dialoghi ficcanti, l’uso della tensione, la creazione di immagini e situazioni di incredibile impatto.

Tra gli appassionati ‘di settore’ è anche riconoscibile grazie al suo amore sfacciato per il cinema e la citazione, l’intreccio spesso esposto in maniera destrutturata, e la capacità di remixare le fonti stilistiche più disparate al fine di creare un linguaggio colto e popolare al contempo.

C’era una volta a… Hollywood può sembrare privo degli elementi per i quali molti spettatori accorrono alle nuove fatiche del regista di Knoxville. Di violenza ne si vede molto meno del solito, non ci sono vendette, non ci sono situazioni senza uscita, tutto procede con relativa tranquillità e i protagonisti non sono criminali, guerrieri o in generale persone che giocano con la morte.

Sono due attori, due amici.

Un’altra delle caratteristiche famose di Quentin. Tra l’altro qui in una delle scene tematicamente più rilevanti del film.

Uno di loro è un divo, una persona che vive dell’immagine di sé e l’altro è invece uno stuntman, che vive di fisicità e che dai riflettori è ben lontano. Il secondo è la controfigura del primo e al cinema sono praticamente due aspetti della stessa persona.
Seguiamo le loro ‘avventure’, il loro rapporto con il mondo dello spettacolo e in questo modo esploriamo molte sfaccettature, nel bene e nel male, del concetto di idolatria.

Da quello del divo che vuole restare rilevante a quello del cultista che segue ciecamente un inquietante santone. In particolare ci addentriamo nel ruolo dell’attore e del meccanismo galvanizzante e pernicioso del vivere un lavoro che richiede la costante attenzione di migliaia di persone.

Di come questa dinamica possa portare a frustrazione e smodato egocentrismo, ma anche a spingere la propria arte oltre ai limiti e toccare punti di splendore personale e professionale. Prendere il proprio vivere, metterlo nel mestiere e vedere come il mestiere si reinserisce poi nel vissuto, ricominciando il ciclo.

Un momento che sembrava splendido già dal trailer, e che non ha deluso le aspettative.

Attraverso questo racconto estremamente lineare, vediamo le concessioni, i compromessi, la gioia, l’angoscia, il decidere cosa mostrare e cosa no ad un pubblico che non sa cosa si cela oltre lo schermo.

Questa introspezione e questa linearità possono apparire stranianti vista la filmografia del regista (che comunque nel tempo si è sempre più avvicinato ad una scrittura meno rompicapo e più limpida), ma se all’apparenza sembra di trovarsi quasi in terra straniera, i punti cardinali sono  tutti lì.

Solo che stavolta Tarantino ci svela cosa c’è oltre al racconto.
Esemplare tutto il processo attraverso il quale Rick Dalton interpreta il ruolo centrale all’intreccio. Il dialogo sul portico, l’inceppo durante le prove (con tanto di attenzione sul movimento di macchina che si ripete sfumando ancora di più i vari piani di realtà), la rabbia nella roulotte e il monologo del saloon sono stupendi momenti di grande narrativa.

Rick si scambia uno sguardo con la sua immagine riflessa la quale, con uno splendido gioco visivo, ci include nello spazio intimo rivolgendosi a noi.

Il film ci racconta il dietro le quinte e l’intimo spettacolarizzandoli come se fossero una grande epopea. Lo fa fino al punto in cui questi due poli convergono, tutti i fili vengono tirati e improvvisamente si è di nuovo pienamente in una ‘classica tarantinata’.
La storia ci fa ‘sudare’, prima di ottenere la catarsi, ma quando si arriva sembra esserci qualcosa di più che galvanizzante soddisfazione.

Il tutto con la solita maestria e consapevolezza. Inutile dire che Tarantino ha sempre un grande occhio e una grande penna e questo film ne è l’ennesima riprova.

L’unico possibile inceppo della pellicola è che, proprio a causa di questo aspetto (e io malignamente oserei dire anche a causa della fama del suo regista) la struttura generale della vicenda risulta molto dilatata.

L’occhio compositivo del nostro è sempre in forma.

La storia è uno spicchio di vita regolato da temi e piccoli momenti e che solo occasionalmente lavora di dinamismo e tensione (la sequenza al ranch risulta quasi un magistrale cortometraggio horror inserito all’interno della storia principale).

I racconti di questo tipo, solitamente mossi da temi e personalità più che da eventi veri e propri, sono sempre difficili da gestire. Soprattutto se vengono esposti con il linguaggio popolare al quale la filmografia di Tarantino ha abituato il suo pubblico.

Rick e Cliff condividono un momento di divertito egocentrismo, quando…

Laddove la natura episodica può quindi risultare scricchiolante per alcuni, per altri può sembrare addirittura zoppicante e vuota. Complice anche, da parte della storia, il dare per scontato che la figura di Charles Manson e le dinamiche della strage di Cielo Drive siano familiari allo spettatore. Sapendo poco e niente di quanto appena citato, molti punti del racconto risultano raffazzonati e il personaggio di Sharon Tate appare simbolicamente forte, ma quasi inutile a livello di intreccio.

Per chi scrive, ovviamente, questi sono problemi minori, se non nulli, e Tarantino consegna l’ennesima opera visivamente e concettualmente pregna, da vedere e rivedere appena si presenta l’occasione, possibilmente al cinema.

Brandy miglior personaggio della storia del cinema. Non sento ragioni.

Alessandro Romita
Grafico e Illustratore, ma aspirante fumettista (per ora ha all'attivo il webcomic Piergiorgio e il Drago). Ha un amore feticistico nei confronti delle meccaniche che regolano i media, dal vivo quindi potrebbe discutere di tali argomenti a tempo indeterminato fino al rischiare denunce per sequestro di persona. Scrivendo almeno consente ai suoi interlocutori una maggiore libertà di approccio. Per lui, ogni scusa è buona per poter disegnare e discutere di ingranaggi comunicativi, in particolare quelli del videogioco, del fumetto, della musica, della pittura e, ovviamente, del cinema ed è convinto che di tali meccanismi si parli troppo poco. Quindi eccolo qui a sfogare le sue compulsioni, guidato da un idealismo innamorato e da un pericolosa foga entusiastica.

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