“Se vogliamo chiamarci ‘Cinefili’ o come sia che ci vogliamo definire per sentirci fighi e maturi, ammettiamolo, c’è sempre stata una componente infantile nell’amare il cinema. Non dimentichiamo la volta che Orson Welles definì un set cinematrografico come ‘il più grande trenino elettrico che un bambino abbia mai avuto’. Si è arte, si è importante, ma resta un piccolo e divertente trucco di magia che ha bellezza nella sua semplicità e spesso non necessita di una maggiore intellettualizzazione rispetto ad un meravigliato ‘uuuuuh'”

Kyle Kallgren

Se avete già visto House di Nobuhiko Obayashi e lo avete molto amato, forse potremmo anche chiuderla qui e scambiarci complici occhiolini (vi consiglio comunque di leggere, per bieca pubblicità).
Se invece avete appena concluso la visione e vi sentite senza una bussola che vi indichi il possibile motivo d’esistere di un’opera del genere, forse potreste trovare di seguito qualche spunto di riflessione.
Invece, se non sapete cosa House sia, correte a vederlo.
L’articolo sarà qui ad aspettarvi.

HAUSU!

Appena tornati? Mai andati via? Bene.
Tanto per divertirci, prendiamola alla larga.
So che è scoraggiante, ma chi scrive ha scoperto giusto mentre chiudeva questo articolo di averne iniziato la stesura vicino al giorno della morte del maestro Obayashi.
Se prima il voler approfondire a costo del tedio era solo un difetto d’autore, ora sembra quasi un dovere morale.

Partiamo dalle immagini.
Il punto di questa rubrica, dopotutto, è cercare di esplorarne il potenziale.
Questo perché spulciarne i meccanismi e sviluppare una consapevolezza di come esse agiscono su di noi ci consente di comprendere meglio un’opera che parla la lingua del visuale.

Siamo abituati a leggere il cinema come strumento narrativo e quindi a ricercare un intreccio e vediamo le immagini come veicolo di esposizione dei ‘fatti’. Alle volte quell’intreccio non c’è e/o la trama non si racconta esplicitamente, ma attraverso simboli e magari così facendo potrebbe avvicinarsi ad una suggestione o un trattato, piuttosto che ad un racconto. Altre volte ancora, di ciò che di solito consideriamo trama, non c’è nemmeno la parvenza e ci ritroviamo nel reame dell concettuale o anche dell’esperimento, del placido poema visivo o del rapido mitragliare di immagini assurde o del delirio astratto e…

a quel punto, di questa cosa che abbiamo sotto gli occhi, cosa ce ne facciamo?

1) i colori descrivono 2) diventano simbolo 3) astraggono. Ognuna di queste immagini può avere una delle tre valenze o un mix di tutte, ma ogni valenza ha i suoi punti di forza. Anche quella astratta e puramente estetica.

Per superare questo confine (ammesso che si voglia, ma fidatevi che aldilà è uno spasso) dobbiamo andare ancora un po’ più a fondo.
Consideriamo che le immagini esercitano un enorme potere emotivo, più che logico, su di noi. Al contrario del verbo, ci riportano in maniera più sensoriale e diretta all’interno dell’esperienza di riferimento. Oppure possono prendere tale esperienza e smontarla per creare qualcos’altro.

Leggendo ‘mare’ su queste righe, avrete una serie di idee e concetti di mare tutti vostri ai quali fare riferimento. Invece, trovandovi di fronte un video del mare, avrete un’esperienza molto più precisa. Non è altro che moto di onde.

A meno che non decidiamo di modificarlo, riplasmandone l’idea.
Potremmo tingerlo di rosso ed evocare concetti di inferno, sangue, apocalisse. O renderlo bianco e nero suggerendo statuarietà, passato o apatia. Ancora potremmo velocizzarlo, rallentarlo, capovolgerlo, romperne il ritmo naturale, rielaborarlo in digitale, con filtri che richiamano volutamente la sgranatura di un’immagine in bassissima definizione, per creare parallelismo tra natura e digitale.

Eppure anche se quell’immagine e le sue variabili possono veicolare un significato, ognuna di esse ragiona sempre in primo luogo all’interno del reame dell’esperienza sensoriale.
Non è necessario leggere tutta l’arte in questo modo, ma è un grosso vantaggio sapersi innamorare delle immagini in quanto tali e non in quanto cose che rimandano ad un concetto più o meno specifico.
Le immagini quindi possono raccontare una storia, invitare a riflettere su un tema, o soltanto elargire emozioni difficilmente traducibili.

Una semplificazione grossolana, lo so. Ma è per provare a rendere l’idea della differenza tra i due tipi di esperienza.

Facciamo un parallelismo musicale.

Quando ascoltiamo Don Raffaè di Fabrizio De André, sentiamo che ci parla di cose serie ed importanti, come l’omertà e i meccanismi che creano quel disgustoso sistema che è la mafia.
Ma quando ascoltiamo Toccata e fuga in re minore di Bach, di cosa ci ‘parla’ esattamente?
Io non saprei dirlo, ma so per certo che quello che mi regala non è assolutamente da meno.
È vero che la musica è intangibile per natura come è vero che quando sentiamo una voce cantata e/o delle parole abbiamo dei punti di appoggio riconoscibili come ‘familiari’. Questo però non ci ha mai fermato dal commuoverci per l’Aria sulla quarta corda, pur senza trovarci un ‘senso’ se non la musica stessa.

Perché limitarci a paralleli con altre arti? Non è bello chiudere gli occhi, mentre con le orecchie sott’acqua sentiamo il sole sul corpo e vediamo solo chiazze di colori? Oppure rimanere basiti davanti ad un tramonto con tinte particolarmente forti? Magari dare pugni ad un sacco da allenamento. Baciarsi, fare sesso. Tutte queste esperienze ci travolgono indipendentemente dal loro ‘significato’.
Perché, dunque, per le immagini dovrebbe essere diverso? Non ci basta il puro piacere di provare una cosa nuova che giochi con l’emotività e non con la logica? Dobbiamo per forza ricercarci un senso per sentirci appagati?

 Talvolta, non essendoci molta educazione all’immagine, lo spettatore fatica a decodificare una storia anche solo leggermente simbolica. Accade poi che lavori sperimentali o atipici vengano interpretati come una capriccio dell’autrice/autore di sembrare inutilmente criptica/o. Ci sono sicuramente alcuni casi in cui è così, ma spesso chi crea l’opera sperimentale è semplicemente amante dei pro e dei contro del linguaggio mediatico che ha scelto e vuole concentrarsi su quelli.

Questo fraintendimento crea molteplici barriere comunicative che vogliono l’arte sperimentale o atipica unicamente come elitaria o fine a se stessa. L’arte è seria ed è importante, ma è anche soprattutto uno strumento empatico, un invito al gioco e all’esperimento, sintomatico di un innamoramento per l’arte stessa.

Una cosa può essere gioiosamente ludica e tremendamente seria allo stesso tempo.

E in questa disciplina, House di Obayashi vince l’oro.

Non c’è zerbino che possa prepararvi a dovere.

È un film unico e irripetibile, serissimo e dolce, ma sempre giocoso prima di tutto. Una pellicola contraddistinta dalla sua decisione di pescare a due mani da un cilindro colmo di trucchi cinematografici e inserirne quanti più possibile all’interno della sua durata.

Ci sono tecniche dal passato (una su tutte, i fondali dipinti) che venivano inizialmente utilizzate come ‘miglior soluzione possibile’ e che Obayashi mette in scena con la pura voglia di estremizzare quello che ai loro tempi era surrealismo involontario, rendendolo in tal modo perfettamente consapevole.

Ma ci sono anche tecniche completamente d’avanguardia usate per descrivere eventi drammatici e orrorifici con l’obiettivo alle volte di spaventare, ma molte altre di lasciare stupiti. Effetti speciali messi in scena per sorprendere e portare in mondi sensoriali diversi.

I fondali. A sinistra: un tramonto surreale in una delle scene più famose. A destra: Beffa su beffa. Le ragazze davanti ad un piccolo fondale pittorico, che ritrae l’ambiente ‘reale’ circostante…anche esso, ovviamente, dipinto.

Il film chiama continuamente l’attenzione sul modo in cui è fatto, non ha nemmeno per un secondo l’intenzione di raccontare in maniera ‘credibile’ la vicenda. Interpretazioni sopra le righe (con protagoniste interpretate da non-attrici), i già citati fondali dipinti, un volto che casca in pezzi come tagliuzzato con forbicine, ritmo interno iperveloce in un momento e immerso nella melassa il successivo, temi musicali da cartone anni 80 per accompagnare le azioni di un personaggio, scheletri da addobbo di halloween, montaggi e fotomontaggi attuati senza nessuna ricerca di realismo, incursioni improvvise nell’animazione o nel collage o in entrambi allo stesso istante, urlanti scene che si assemblano come frenetici frankenstein composti da pezzi di film di kung fu, cartoni animati schizofrenici, situazioni horror con tanto di litri di sangue e un amore per la baraonda senza fine (come nella scena dello scontro, personalmente, il picco della pellicola).

Scontro intraducibile a parole, dunque uno dei migliori che io abbia mai visto su pellicola.P.s. Kung Fu best personaggio e non sento ragioni.

Sarebbe bellissimo analizzare la molteplicità di linguaggi visivi che presenta questo film, ma risulterebbe un’impresa allucinante e probabilmente infinita. Ogni istante presenta un’idea nuova che, per quanto spesso completamente slegata stilisticamente dalla precedente e successiva, è sempre presentata con cura e allo scopo di regalare uno stimolo unico ed irripetibile.

Anche il tono generale non lascia scampo: si passa da momenti grotteschi ad altri sinceramente buffi, poi ancora terribili e violenti così che la paura nasca dal già citato e costante senso di smarrimento. Devo ridere? Devo provare inquietudine? Fame? Sonno?
È noto (e indicativo dello spirito dell’opera) che Obayashi chiese alla figlia tredicenne aiuto nello stendere la trama, perché ‘gli adulti pensano troppo con la logica’.

Al quanto e al come, infatti, l’intreccio è pressappoco il seguente:
un gruppo di amiche sceglie di passare un week end a casa della zia della protagonista. La zia non la racconta giusta. Succedono cose. Tutto qui.

Immagini che descrivono i fatti

Sta tutto in come quelle cose succedono e nel motivo per il quale si è scelto di creare un’opera simile.

È vero, il film cela una riflessione sul conflitto generazionale tra chi ha perso tutto e non vuole arrendersi all’idea e chi non sa nemmeno lontanamente cosa voglia dire perdere qualcosa. Una riflessione, inoltre, veicolata tramite calzanti scelte visive. Il segmento in bianco e nero usato per raccontare un’epoca passata, o l’idealizzazione del professore raccontato come il finale di un film cavalleresco con tanto di fiabesca scritta ‘the end’.

Le protagoniste spensierate vivono quindi in un mondo stilizzato come fosse un videoclip animato anni 60′, una pubblicità o un programma tv da quattro soldi,  che ben presto si farà lacerare dalla casa (House) del titolo, tramite le tecniche assurdamente irrealistiche che parallelamente stracciano l’idea ‘classica’ di film.

Immagini che descrivono fatti, ma soprattutto evocano e veicolano concetti

E forse era questo quello che Obayashi voleva, ciò che gli ha consentito di stravolgere e cambiare la storia del cinema giapponese e mondiale.
Le immagini di House raccontano una storia e contemporaneamente comunicano concetti legati ad essa, ma il loro più grande valore (che trascende i precedenti) è quello di stupire e regalare qualcosa di diverso, a prescindere dal suo significato.
Sono visioni pregne di una voglia palpabile di combinare un parapiglia, ribaltare le carte in tavola con la gioia di un marmocchio, un pargolo troppo energico per stare seduto e pensare ad una strategia, perché correre urlando e immaginare cose assurde è troppo più bello.

Obayashi era un entusiasta, un uomo molto intelligente con lo sguardo affascinato e divertito, che non amava le distinzioni tra cosa è cinema e cosa non cinema perché per lui contava la ‘materia prima’; che fosse uno spot, un videoclip, un film, era tutto lo stesso splendido mare di possibili esperienze, unite da una lingua comune.

Immagini che descrivono, evocano e beh…sono un mix tra ottovolante e caleidoscopio.

E infatti, aldilà delle intenzioni, della narrazione e dei suoi sottotesti sociali, a parere di chi scrive, la lezione che ancora oggi più ci affascina di House insegna che voler giocare e condividere questo entusiasmo (purché fatto con visione, passione e senza banalità) è una cosa splendida e perfettamente dignitosa.

Forse la cosa migliore che può darci l’arte e che spesso, presi dal voler dare valore al nostro giocattolo preferito, dimentichiamo con più frequenza.

On I go, not toward or away
Up until now it was day, next day
Up until now in a rush to prove
But now I only move to move

On I go – Fiona Apple

La versione integrale della mia animazione a tema.

Alessandro Romita
Grafico e Illustratore, ma aspirante fumettista (per ora ha all'attivo il webcomic Piergiorgio e il Drago). Ha un amore feticistico nei confronti delle meccaniche che regolano i media, dal vivo quindi potrebbe discutere di tali argomenti a tempo indeterminato fino al rischiare denunce per sequestro di persona. Scrivendo almeno consente ai suoi interlocutori una maggiore libertà di approccio. Per lui, ogni scusa è buona per poter disegnare e discutere di ingranaggi comunicativi, in particolare quelli del videogioco, del fumetto, della musica, della pittura e, ovviamente, del cinema ed è convinto che di tali meccanismi si parli troppo poco. Quindi eccolo qui a sfogare le sue compulsioni, guidato da un idealismo innamorato e da un pericolosa foga entusiastica.

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