a G.

Quella sera ci hanno tirati fuori col carroattrezzi. La macchina era bloccata in un sottopassaggio allagato, l’acqua fino ai finestrini, noi tutti travestiti da streghe e diavoli, la sera di Halloween più piovosa mai vista; scrosciava, tuonava, sembrava che tutto si fosse messo d’accordo per spaccare la terra: le nostre urla, il riflesso dei vetri bagnati, il mondo mostruoso fuori. Ho pensato: chi gira stanotte con questo tempaccio, solo disperati, solo persi, uomini mezzi, mezzi miserabili, spettri.

La mattina dopo era il caldo, l’afa, mai visto un cambio così repentino, il sole sembrava scherzare invitandoci a uscire, a guardare com’era la strada. M. mi chiede di prendere un gelato sotto lido, lontano da casa e io dico sì perché all’epoca eravamo amici, due ragazzini e forse mi piaceva, gli dico di sì perché insomma volevo quel gelato e poi cosa fare col sole così alto, rimanere dentro?

Si parla, si cammina, io perlopiù guardo a terra; sembrava esserci un tempo d’attesa interiore, uno scavalcamento tra i mondi, quell’aria fissa in aria, irrespirabile. E poi la macchina. Poi la macchina, infondo la strada, la vedo di sfuggita e mi sembra -mentre vedo- di vederci dentro una mano. Una mano al finestrino e poi nulla. Un attimo d’attesa, di sbigottimento, esitazione: ci si guarda: cosa si fa ora, ci si avvicina. Dentro una donna. Una donna rugosa, sofferente, un volto deforme, due occhi piccoli, capelli increspati, balbetta qualcosa, picchia il finestrino con la mano, nell’afa dell’auto. Speravo fosse chiusa, invece quando premo la maniglia l’auto effettivamente si apre, effettivamente la donna non era bloccata all’interno, effettivamente la puzza mi stende: di merda, di vomito e piscio, una nube di mosche ora ci circonda. Una puzza così rivoltante da non ritorcere le budella, ma più cerebrale, da arrivare dritta al cervello, da farti piangere. M. scappa, nel mio ricordo così smussato poi non c’è più, ora è corso da qualche parte, forse a chiamare un adulto ma io nel ricordo, ora, sono solo con quella donna, che si alza piano dal sedile ed esce; per occhi due feritoie, tutta rugosa, i capelli di lana, addosso una vantile tutta sporca di vomito e merda e la donna puzza, puzza così tanto da radunare ogni mosca nei paraggi e io sono dentro questo miasma con lei. Chiamo carabinieri, ambulanza, chiamo mia madre le dico “ho trovato questa donna in una macchina non so cosa fare, mi hanno detto di aspettare”. Le parlo e piango nel mentre, mi stringo la maglietta tra le dita.

Le provo. Le dico. Provo a dirle: signora: cos’è successo. Chi l’ha lasciata chiusa qua dentro. Lei mi guarda e mi dice “voglio andare a casa, a quest’ora mio figlio mi dà la medicina” ma io la trattengo, lei cammina, sembra che voli, si sposta come una mosca grassa, si guarda intorno confusa, si gratta la testa e io le parlo e piango, per quella puzza, per vederla così, perché mi dice “ero con mio figlio ieri sera, ha parcheggiato e poi non è tornato, ora è meglio che vada, devo andare a casa”.

I carabinieri mi fecero aspettare un’ora e mezza, l’ambulanza arrivò ancora più tardi. Poi arrivò mia madre, poi io svenni, poi mi dissero che la signora aveva l’alzheimer, che il figlio l’aveva parcheggiata (così hanno detto, parcheggiata) la notte precedente per andare a comprare la droga, probabilmente: “quello lì è così, alcolizzato, un tossico”. Mi dissero “non ti mettiamo nel verbale” e poi nulla. M. stava bene. Tempo dopo conobbi il figlio di questa donna, in un bar, per caso, per amici di amici di amici. Non gli dissi mai, no, “ho trovato io tua madre quell’Halloween”. Di lei più niente. Ci penso spesso. Mi pare sia morta affogandosi con un pezzo di pane.

Antonio Scialpi
Classe '98, anima queer della festa. È appassionato di antropologia e semiotica. Adora filarsi film strani che non vede nessuno perché ha tempo da perdere. Scrive poesie, gli perdonerete l'astrusità. Lo trovate sui social come @dasbaglio. Può sembrare snob, ma è soltanto la resting bitch face.

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