Oggi parliamo del vincitore agli Oscar 2020 per la migliore sceneggiatura non originale, ossia della “Vita è bella”, ma bello (si scherza, forse). Jojo Rabbit, opera del 2019, di quel matto di Taika Waititi.

Trama
Jojo Rabbit

Moonrise Kingdom ft. Hitler

Jojo, un bambino cresciuto dalla sola madre, ha come unico alleato il suo amico immaginario Adolf Hitler. Il suo ingenuo patriottismo viene però messo alla prova quando incontra una ragazzina che stravolge le sue convinzioni sul mondo, costringendolo ad affrontare le sue paure più grandi.

 

 

Sigla!
Contesto

Ci sono due piani di realtà. Quello dell’intreccio e quello in cui il film è stato scritto.

Il primo: 1945. Germania, o forse Austria. Le coordinate geografiche non sono chiarissime. Nello script si cita Vienna ma nel corso del film non vi è alcun riferimento. Inoltre la cittadina austriaca è anche il setting di Come semi d’autunno, opera di Christine Leunens, a cui l’autore si è fortemente ispirato. Nello svolgimento della narrazione, l’unica indicazione che il film ci fornisce, è il fiume Fluss: che in verità non è un fiume esistente della Germania, quanto la parola tedesca che significa appunto “fiume”. Un artificio utile a dare una connotazione di incertezza riguardo la città in cui si svolgono le vicende. Questo in qualche modo mette a riparo il racconto da eventuali demistificazioni storiografiche.

Siamo nelle ultime fasi della Seconda Guerra Mondiale, e la Germania nazista sta soccombendo contro gli Alleati. L’orrore del secondo conflitto mondiale e soprattutto del dramma della Shoah è ancora una presenza tangibile. Un fantasma che resterà (e deve restare) a lungo nelle nostre memorie.

Il secondo piano di realtà: 2011. Siamo negli anni dei boom dei social. Quello in cui il mondo è incollato allo schermo perché il Principe William del Galles sposa Kate Middleton. Si inizia a parlare di fake news e il bullismo è finalmente individuato come una minaccia nel processo di crescita. Il 2 maggioOsama bin Laden, emiro di Al-Qaida e ritenuto organizzatore degli attentati dell’11 settembre 2001, viene ucciso ad Abbottabad, in Pakistan, dai Navy SEALs americani. Questo è inoltre l’anno dell’attentato terroristico, di matrice neonazista, che colpisce il centro di Oslo, capitale della Norvegia, con un ordigno esplosivo e l’isola di Utøya con una sparatoria: i morti sono 77 in totale. Il responsabile del massacro è un norvegese di 32 anni.

IL BAMBINO CON LA CAMICIA A QUADRETTI

Da qui troverete degli spoiler, ma ho cercato di limitarne l’uso rispetto al solito.

Jojo Betzler è un simpatico ragazzino di 10 anni, che si diverte a giocare nel suo campo scuola e ha un amico immaginario. Peccato che il campo scuola sia la Hitler Youth (Hitler-Jugend in lingua originale), organizzazione paramilitare nazista avente la missione di addestrare i futuri membri delle truppe della Germania nazista. Peccato anche che l’amico immaginario di Jojo sia il Führer in persona, Adolf Hitler.

Fin dai primi secondi il regista ci introduce in una discrasia visiva ed emotiva. Gli orrori della seconda guerra mondiale e il prossimo tracollo dell’esercito tedesco, fanno a cazzotti con questo microcosmo colorato e buffo, caratterizzato dalla presenza di bambini più adulti degli adulti stessi, tipici del cinema di Wes Anderson, ricordato anche per la geometria delle inquadrature. Mentre i Beatles cantano “I Want to Hold Your Hand” in tedesco, i passanti si salutano con una raffica di grotteschi «Heil, Hitler!», espresso con la cordialità di una pubblicità della Mulino Bianco. Nella sequenza iniziale vengono inoltre mostrate immagini di repertorio di folle in adorazione al Führer, tracciando una inquietante correlazione con la Beatlemania.

Jojo è un fanatico. Un fervente nazista. Sicuramente la sua descrizione non coincide con l’immaginario canonico. Ma lo è. Integrato nel sistema sociale e politico ha fatto propri i suoi ideali, nonostante il tentativo della madre di “epurarlo”. Nascosto tra le pieghe comiche delle situazioni e tra la comicità fisica dell’amico Hitler (interpretato dal regista stesso) c’è un forte senso di cinismo. Ogni persona, anche la più buona ed innocente, deve confrontarsi con un determinismo sociologico, con un ordine precostituito che ne influenza valori e azioni, siano esse declinate in senso tetico (Jojo) o antitetico (la madre).

Hitler non è altro che la proiezione dei pensieri di Jojo, quelli che l’autore vuole farci odiare. È un idolo. La svastica appesa al muro non è dissimile, in questo contesto, ad un poster di Kurt Cobain. Non a caso sul finale, tutti i vessilli che cospargevano la sua camera verranno coperti da illustrazioni di farfalle. In questo modo il film da una parte ci giustifica il cambio di prospettiva ideologica del protagonista, ma dall’altro ci mostra anche la fragilità delle sue convinzioni. Discorso che chiaramente può essere generalizzato ad una riflessione sulla società più in generale.

L’attualismo del passato
Sebbene l’opera sia ambientata in un contesto storico ben definito è evidente che il bersaglio del suo messaggio miri ad essere universalizzato. Sarebbe riduttivo dire che Taika Waititi abbia fatto un ritratto storico-ideologico della Germania Nazista e del genocidio, anzi, le fonti storiche e l’ambientazione in cui si sviluppa tutto l’intreccio risultano essere abbastanza sommarie e aleatorie. Sembra che il regista preferisca non fornire precise coordinate geografiche che possano inquadrare la vicenda in un preciso habitat storico con i suoi relativi soggetti attivi e passivi.
Il messaggio del film risulta puntare ad un obiettivo più nobile: mettere in secondo piano il contesto storico e la rispettiva tragicità per permettere il focus sulla fenomenologia del fanatismo ideologico che continua ad aggirarsi, come uno spiritello ancora troppo sveglio, in odierni contesti sociali e di comunità. Sospendere la pertinenza storica è un primo passo per universalizzare il problema, per farlo risuonare sino ai giorni nostri.
Jojo è per tanto una satira contro l’odio. Quell’odio che oggi trova il suo maggiore palcoscenico sui social media. L’hate speech. L’invito è quello alla democratizzazione del linguaggio politico. Sia destra che sinistra, ragionando in senso bipartitico, può annoverare idee e persone malevole e benevole, così come i personaggi dell’opera del regista neozelandese.
L’elefante equilibrista

Il film di Taika Waititi è una commedia, politica, grottesca, nera, ridicola, parossistica che mette alla berlina le storture della storia e dei fanatismi. Il miscuglio è ben dosato. Il film cammina sempre su un filo, il pericolo è costante. Il rischio di ridicolizzare un movimento come il partito nazista è quello di trasferire il messaggio che quelle strutture di pensiero siano decedute con i poveri folli che le avevano fatte proprie. In un mondo in cui le espressioni più sottili dell’odio rimangono pervasive e mimetizzate, l’opera di Waititi vuole (per interpretazione di chi vi scrive, si intende) attraverso l’empatizzazione con alcuni personaggi, allarmare al rischio di ricadere nelle trappole del passato.

Il cinema infatti ha spesso puntato ad una pertinenza storica che permettesse la “martirizzazione” delle vittime del genocidio e, di conseguenza, un risveglio della responsabilità etica dello spettatore. Come se la memoria potesse rafforzarsi solo attraverso la mortificazione di quest’ultimo – ma siamo sicuri che basti soltanto ricordare per non dimenticare e, soprattutto, per impedire la replicabilità di quegli stessi processi in altri contesti sociali/temporali? La responsabilità etica che ha lo spettatore, in questo modo, non è soltanto di ricordare il passato ma di individuare nel presente la riproducibilità che quegli stessi processi hanno in svariati contesti. E dei danni che possono compiere. Il film chiede allo spettatore di “futurarsi”.
Jojo Rabbit sembra rivolgersi alle nuove generazioni, sembra voler riporre questa presa di coscienza nella linfa nuova e pura del panorama sociale: i bambini.

Guardandolo da una prospettiva storico-politica, lo snodo narrativo finale in cui compaiono gli eroi americani è una presenza scomoda. L’offensiva di Vienna (ammesso che Vienna sia il palcoscenico di questa storia) ha visto protagonisti l’esercito sovietico, che avrebbe poi liberato la città il 13 Aprile 1945 e non l’esercito americano. Quindi non solo sono presenti in quanto salvatori, ma lasciano anche ai russi le azioni più crudeli. Personalmente però ci ho letto una consapevole derisione di tutti gli archetipi storici. L’unico vero screentime di cui godono i soldati americani sembra essere quello in cui scattano foto vittoriose in pose inebetite, sventolano bandiere enormi e corrono odiosamente con le loro auto su e giù per la piazza principale. Non li vediamo ingaggiare nessun combattimento vero e proprio. Una pernacchia all’epicità con cui siamo soliti vedere gli americani ritratti nei film di guerra. Anche qui l’elefante resta appeso al sottile filo.

Si potrebbe inoltre dire che il film, a differenza del libro, sia maggiormente ignavo, o che comunque ricerchi soluzioni narrative e visive meno coraggiose. A partire dall’età dei protagonisti, che rimane fanciullesca per tutta la durata del film, passando per l’adozione dell’espedienti comici che la figura di Hitler suscita e gli amabili personaggi di contorno di Jojo Rabbit, evidenziano come il film abbia semplicemente un’altra missione. Non vuole scavare nel più lercio ed imbarazzante egoismo umano, ma vuole presentarsi come un racconto di formazione, indirizzato ad un pubblico vasto (ma sopratutto i coetanei di Jojo), che intrattenga, faccia riflettere e abbia al contempo cura della materia trattata e dei messaggi trasmessi.

La scena finale, incorniciata dalla meravigliosa Heroes di David Bowie in versione tedesca, dona al film il momento più alto, più dolce, emozionante (più della scena della scarpetta, della quale risulta cinematograficamente superiore) e in cui affiora una sensazione di disincantata speranza. È forse una chiusa che, da sola, può valere il film, un bellissimo film, sicuramente lontano dalla perfezione, ma che regala tanto.

E poi c’è Yorki. Non serve aggiungere altro.

Lore.

Let everything happen to you
Beauty and terror
Just keep going
No feeling is final

                     –  Rainer Maria Rilke


Vivere Maalox: Todo Modo • La città verrà distrutta all’alba, forse

Lorenzo Quarta
Chi mi conosce me lo avrà sentito dire tante volte: amante dei linguaggi e non delle lingue. Potrebbe non avere senso, ma nessuno mi ha mai contraddetto, quindi tant’è. Molto amante del "less is more" o semplicemente indolente. Ciao. ????

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