Clémence Poesy “Le coup des larmes”2019

Il cerchio si apre e si chiude con le lacrime di Florence, protagonista del cortometraggio di Clémence Poesy, immersa nei suoi passi innevati, a fissare un punto lontano dello spazio, a osservare una figura che si disperde in questo bianco paesaggio. Udiamo la scricchiolante neve, i loro respiri e l’essenza di un amore destinato a incontrarsi, dopo quattro anni di assoluto silenzio.

Florence è un’attrice che interpreta il suo vissuto, e le si chiede di non essere così vera. Viene inviata in un poligono di tiro per imparare a usare le armi, e questa sfaccettatura svela un incontro, un incontro che conduce al passato delle due protagoniste. Siamo nel bosco, siamo nel mezzo delle riprese del film e verso la fine del cortometraggio si scorge la figura della “vera” regista del corto: tra realtà e finzione.

Florence e Sacha si muovono nell’apparente verità, sentiamo i loro baci, le loro carezze, il calore del fuoco. Ci muoviamo nel bosco e sentiamo la rabbia, la paura, lo sparo. La caduta del tronco, la caduta di Florence nel ripetersi del loro addio.

Boris Lojkine “Camille” 2019

https://www.agencevu.com/stories/index.php?id=1856&p=251

A piccoli passi ci muoviamo al fianco della fotografia di Camille Lepage, fotoreporter francese che è stata uccisa nella Repubblica Centroafricana nel 2014, documentando la guerra civile e lo scontro fra le due fazioni Seleka e Anti-Balaka. Il regista del lungometraggio Boris Lojkine, innamorato dell’Africa e sensibile alle dinamiche di unione e fratellanza, scrive quest’opera, scrive dell’esperienza di Camille, del suo trascorso in questa terra.

Questa ricerca dell’umanità di Camille risuona con il suo lavoro su Hope. Lei sembra ovviamente condividere alcuni valori.
Camille sono io. Certo, è molto diversa da me, ma ho bisogno anch’io di andare fino alla fine del mondo per trovare il mio posto, per dare un senso al mio lavoro. In quanto regista, finisco per sposare la sua ricerca nel film e la cinepresa finisce per combaciare con la sua macchina fotografica. Quello che succede nel film rappresenta il modo in cui noi guardiamo le persone e tutto ciò che può stabilire un legame tra loro e noi.

La fotografia di Lapage si mescola con il film, un occhio al dettaglio dell’evento, si muove con cautela tra la folla manifestante, per salvaguardare la loro Terra, la loro casa, le loro madri, la propria famiglia.
Documenta una realtà vera e cruda, con un taglio fotografico che calza a pennello con la finzione ritmata del film di Lojkine. Una ricerca accurata per raccontare il mondo dei giornalisti di guerra, saper raccontare la vittoria e la sconfitta umana, scorgere l’importanza del canto che unisce “Pace, pace, solo pace” e la giovinezza di alcuni soggetti con le armi appese alla spalla, chiedersi se pensano, se sono coscienti dei loro gesti, si chiede Camille. Il formato del film corrisponde a quello di una fotografia, così da sovrapporsi perfettamente al taglio del lungometraggio, così da poter rendere fluido il racconto. Il film, così, conduce lo spettatore in una realtà parallela, sentirsi vicino agli eventi, alla vita di Camille, ai suoi scatti, alle sue amicizie.

Documentare il documento, la realtà che ci appare chiara, o c’è altro?  C’è la vita individuale, che ruota attorno all’emozione. Attorno a chi lotta, c’è altro. C’è la gente che scappa per paura e si rifugia ovunque. “A volte mi sveglio e mi chiedo cosa ci faccio qui, nel mezzo di questa guerra che non è mia, perché mi sento così bene qui con i miei simili”

Questo film rende omaggio alla passione, alla figura di Camille, al suo modo di osservare la realtà con uno sguardo raro e intenso, al suo coraggio. Concludere il film con un canto, con un monologo a se stessa, con il senso di appartenza verso quella terra.
Mi sento a casa, viva come mai prima d’ora

Federica De Rinaldis

Josza Anjembe “Baltringue” 2019

Baltringue (una sorta di slang dispregiativo del tipo ‘femminuccia’…se non peggio) è un cortometraggio che vola via come un soffio.
È come intravedere una sagoma distinta della quale non afferri i dettagli a causa di un bagliore. Sarà forse questo il motivo per il quale la regista Josza Anjembe sceglie questa come immagine conclusiva del racconto.

La prova attoriale di Alessane Diong è d’effetto, con uno sguardo magnetico e una capacità espressiva che subito fanno breccia. La regia è sicuramente competente (soprattutto la scena sotto la doccia) e la situazione, della quale non ci è dato sapere origine né seguito, è interessante come esperimento di racconto ‘bolla’ e analisi di alcune sfumature del comunicare e perpetrare amore, accettazione, identità e violenzaBaltringue sembra una breve ma intensa fetta di un racconto più grande, che ne contiene però già tutti i ‘semi’ principali.

L’espressività dolce e umana e al contempo marmorea e aliena di Diong stupisce al primo sguardo.

Si è parlato infatti di soffi effimeri e sagome sbiadite, ma i temi di questo piccolo quadro in movimento sono in realtà molto espliciti.

Ciò che lascia perplessi è però lo sviluppo, o la sua mancanza.

Per quanto apprezzabile e a tratti interessante, questa narrativa minimale è davvero troppo effimera, almeno dal punto di vista di chi scrive. Si fa giusto in tempo a chiedersi se c’è qualcosa di più nel sottotesto o come il racconto andrà a svilupparsi, che già è finito. Sicuramente la visione poetica di alcuni gesti e la dolcezza dell’ultima parte fanno da buon cuscino per atterrare sul finale.
Ma davvero non basta a portare a casa il tutto.

Una vicenda dolce, dura e interessante, con troppi pochi assi nella manica per tatuarsi sull’anima del pubblico.

Zabou Breitman e Eléa Gobbé – Mévellec  “Les Hirondelles de Kaboul” 2019

Una piccola, splendente pietra preziosa.
Kabul è sotto il giogo dei Talebani e assistiamo alle vite di un manipolo di personaggi che abitano la città.

I film che puntano la lente d’ingrandimento su precisi problemi storico-socio-culturali, spesso inciampano in un paio di errori che ne vanificano la portata universale (a parere di chi scrive). Uno di questi è il concentrarsi troppo sulle ‘situazioni collettive’ e sui ‘fatti’, dimenticandosi di creare personaggi ai quali affezionarsi. Figure che siano veicoli per traghettarci emotivamente e farci quindi sentire più vicini i succitati problemi su ‘larga scala’.

L’altro errore è quello di cadere nella solita e trita estetica da camera a mano, con pretesa di ‘realismo’.
Questa scelta ha come risultato (sempre a parere di chi scrive) il solo effetto di voler sembrare un documentario, prendendone però in prestito solo gli strumenti noiosi e abbandonando quelli efficaci.
Dimenticandosi, nel mentre, del potere della fiction.

A parere di chi scrive, lo stile di animazione ricorda la dolcezza dello Studio Ghibli. Le pause, i dettagli e la dolcezza con la quale i gesti si arrestano in pose fisse ricorda i lavori dello studio di Miyazaki e Takahata (in particolare la Principessa Splendente, data la vicinanza dei tratti)

Fortunatamente, Le Rondini di Kabul schiva abilmente queste trappole.
Non solo sceglie l’animazione, ma la maneggia con delicatezza, donandoci gesti marcati ma dolci, tratti e colori tenui. Così facendo smarca subito il ‘problema’ della forma ‘realistica’ e decide di concentrarsi sull’aspetto poetico della sua storia.

Le inquadrature sono ben composte. Le divagazioni simboliche, surreali ed espressioniste che tanto vengono bene all’animazione corredano umilmente il tutto. Il montaggio è estremamente controllato e capace. Forma e atmosfera sono quindi ad alti livelli e rapiscono subito occhi e orecchie.

La sceneggiatura è meno efficace, soprattutto nella distribuzione dei pesi dati ai personaggi, ma risulta comunque riuscita. I protagonisti sono sfaccettati, empatici, complessi. I personaggi secondari (anche grazie alla sintesi del disegno) sono subito iconici e riconoscibili. L’ambiente sociale influenza le azioni, ma la storia resta sempre e solo delle persone. L’intreccio è silenzioso ma ben congegnato, non manca di momenti quasi thriller e il tocco delle scarpe bianche è un bellissimo espediente di racconto.

La ricchezza dei fondali, insieme al character design, fa il suo gran bell’effetto

Favola amara e asciutta dissertazione, quella che mettono in scena Zabou Breitmann & Eléa Gobbé – Mévellec. Non un capolavoro, ma una piccola perla che ci ricorda che anche le storie dure di ‘vita vera’ possono avere il respiro del grande cinema.

Alessandro Romita

Programma Festival Vive le cinèma
Mercoledì 16 settembre: https://www.vivelecinema-festival.com/programma/

Prenotazione biglietti su: https://www.eventbrite.it/o/vive-le-cinema-31102245301

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