Qualche sera fa avevo voglia di un film che potesse farmi ridere, per superare le tensioni legate alla situazione paradossale che noi tutti stiamo vivendo.
Tramite la piattaforma Netflix, mi è capitato tra le mani “Io e zio Buck”.
Nasceva in me, tra l’altro, una curiosità legata all’interesse che ho per le pellicole datate (questa risale al 1989). Ho scoperto, con grande piacere, che vi erano nascosti dei messaggi interessanti.
Cindy e Bob Russell hanno tre figli – Tia, di quindici anni e due bambini, Miles e Maizy; vivono a Chicago, hanno una bella casa e un buon lavoro.
La vita sembra aver dato loro tutto ciò che si possa desiderare, ma presto i nodi vengono al pettine: i genitori non sanno fare il loro mestiere; problematico è soprattutto il rapporto tra Tia e la madre, perché manca un vero dialogo. Nel cuore della notte, arriva una brutta notizia: il padre di Cindy ha avuto un infarto. Marito e moglie decidono di andare nella città natale di lei – Indianapolis – per la dovuta assistenza. Il problema è: a chi affidare i figli, nel frattempo? Si trova una soluzione telefonando al fratello di Bob, Buck. Grasso, confusionario e pasticcione, sembra la persona meno adatta all’arduo compito. I rapporti non sono dei migliori fin dall’inizio: i tre figli sono sempre stati tenuti all’oscuro dell’esistenza dello scomodo zio, perciò lo vedono come un intruso. Sarà proprio lui, invece, a dare ai nipoti tutto ciò di cui hanno bisogno.
Nel cast si trovano John Candy e l’allora baby-star Macaulay Culkin. Questi due attori, rispettivamente negli anni ’80 e nei ’90, furono protagonisti di una breve e intensissima stagione di successi, prima del declino. Candy – forte fumatore e bevitore, con un passato da cocainomane – ha lottato per molti anni con problemi di salute, che lo hanno condotto alla morte nel 1994. Il bambino prodigio, come noto, ha invece vissuto tra patrimoni sperperati dai genitori, cause legali, matrimoni, divorzi-lampo e quant’altro. Hanno molto in comune, nella realtà, ma, nella finzione, devono restituire il rapporto tra uno zio bambinone, fisicamente possente, e il nipotino, che gliene fa di tutti i colori. Proprio su questo si incentrerebbe tutto il film.
La breve e spiritosa sequenza delle domande a raffica che il bimbo sottopone allo zio, secondo i più, sarebbe la conferma che l’io del titolo volesse riferirsi proprio a Miles.
La mia opinione è invece che il titolo si attagli meglio alla figura di Tia. Lei e suo zio sono allora i veri protagonisti della pellicola, prima rassegnati ma poi pronti ad aiutarsi l’un l’altro, nel difficile compito di accettare la vita così come è e di comprenderne il senso. Prova ne sia che è proprio lo zio ad aiutare la giovane nipote a superare la fine di un flirt con un ragazzo poco fedele.
D’altronde, l’unico impegno che l’omone gentile e affettuoso accoglie con entusiasmo è quello di occuparsi dei nipoti. Quello che per lui è un gioco, gli permette di sfuggire ad un lavoro alle dipendenze della sua donna, che lo spinge da tempo al matrimonio. È dunque l’ennesima fuga dalle responsabilità della vita adulta, che però bussa alla porta, inesorabilmente. Essendosi sperimentato padre in prestito, Buck ha l’occasione di rinsaldare i legami familiari, ma forse gli viene voglia di mettere su famiglia.
Visto il mio interesse per gli ’80, mi piace sottolineare che erano tanti i Buck disimpegnati in quei favolosi anni. Il film – partendo da una vicenda familiare, semplice e paradigmatica – sembra riflettere su quel decennio, essendo ambientato proprio nel suo ultimo scorcio.
autore_ Francesco C.
bio_ Salentino, 28 anni, una laurea in Giurisprudenza e una grande passione per il cinema e per il teatro. Ha frequentato il laboratorio teatrale universitario e nel tempo ha sviluppato un certo interesse per il grande schermo, soprattutto quando vengono proiettate pellicole datate. Spera di dare qui un contributo, per condividere i suoi pensieri e anche per sentirsi parte di un gruppo.
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