Dopo soltanto cinque minuti di visione del documentario “The Grand Bizarre” il mio cervello ha prodotto un numeroso flusso di pensieri, un po’ come quello descritto da Joyce nell’Ulisse, che mi ha fatto spaziare in diversi momenti del mio passato. In ordine mi sono ritornati in mente: i ricordi d’infanzia legati alla mia famiglia di sarte, i mercati visitati durante i viaggi, l’attrazione per gli “assembramenti” di colore e il mio ex dirimpettaio marocchino che mi regalava foulard colorati ogni volta che ritornava in Italia.
“The Grand Bizarre” di Jodie Mack (Stati Uniti, 2018) – regista di origine inglese trapiantata in America – presentato al Festival di Locarno è il racconto per immagini, montate con ritmo incalzante su musica pop, della creazione e diffusione dei tessuti in tutto il mondo. Un inno al colore che racchiude già nel titolo la sua essenza: bizarre ricorda per assonanza bazar; viene fuori un “bizzarro bazar” – un gioco di parole come uno scioglilingua – in giro per il mondo, in cui si mescolano culture differenti, natura, musica e suoni.
Girato in 16mm in dieci Paesi per cinque anni, è un documentario muto di parole e dialoghi, una scelta della regista per ricreare nello spettatore un trip mentale che nasce dalla visione di immagini e musica con una cadenza a tratti psichedelica, come la stessa Mack ha dichiarato in un’intervista “I figured that if you removed the words, then you’d find the poetry” (Ho pensato che se avessi rimosso le parole avresti trovato la poesia).
Una narrazione che parte dalle stazioni radiofoniche di musica elettronica di ogni paese mescolate con elementi di musica diegetica che stimolano nello spettatore il viaggio nell’ambiente e nel tempo; clacson, suoni dall’aeroporto, lo scorrere dell’acqua, versi di animali, tutti elementi che oltre a essere ascoltati si vedono sullo schermo.
Ognuno di noi ha un personale “bizarro bazar”; il mio credo che sia nato nello spazio ben definito della mia famiglia di sarte, da generazioni, per poi continuare in terre sconosciute con i viaggi vissuti dall’adolescenza in poi. È incredibile come la nostra mente conservi alcuni ricordi che pensavamo perduti e forse poco importanti e come il potere di alcune immagini e il sentire di alcuni suoni possano riportare a galla sensazioni che ci fanno provare nostalgia, quella piacevole.
Ritagli di stoffa sfilacciati, di ogni tipo e colore, sparsi sul pavimento della cucina come se fossero un tappeto, cartamodelli poggiati sul tavolo con sopra il tessuto da ritagliare, il rumore fermo delle forbici che, con un gesto deciso, davano vita allo scheletro dell’abito. Le vere attrazioni di casa erano due: la macchina da cucire a pedale e le innumerevoli scatole dove erano conservati, ordinati per categoria, gli strumenti del mestiere: spolette, spilli con la testa colorata, aghi, ditali e bottoni. Ero troppo piccola per capire che quello della sarta fosse un lavoro, per me quell’insieme di colori innescava la voglia di tuffarmici dentro; non ero propensa a imparare nulla, infatti l’unica cosa in cui riesco è attaccare un bottone (non in senso metaforico, in quello sono negata), ma adoravo metterci dentro le mani e creare caos, senza un senso logico. A nulla servivano gli insegnamenti delle mie zie soprattutto con la macchina da cucire che chiusa fungeva da tavolino per fare i compiti dopo la scuola. Ero capace solo a infilare l’ago, sistemare la spoletta in alto a destra e poi via con il movimento ondulatorio del piede destro che doveva coordinarsi con la ruota sulla sinistra. Inutile dire che il più delle volte si attorcigliava tutto e venivo allontanata perché “pericolosa”. Però, il rumore di quella macchina non lo dimentico, era fastidioso, ma quando riuscivi a prendere il ritmo diventava quasi una composizione musicale; il pedale era lo strumento che se utilizzato con la giusta andatura creava un’armonia.
E poi i viaggi, i mercati in città o sulle spiagge; l’esplosione di colori che ti fa sentire in estate anche quando fuori la temperatura è di pochi gradi. Il mercato in Jamaica in riva al mare, la Boqueria a Barcellona sono un insieme non solo tessuti, ma tutto diventa parte di un colore collettivo: il cibo, gli oggetti, gli abiti e le voci delle persone che li vivono, sia di chi è lì da turista, ma soprattutto da chi il mercato lo ha “cucito addosso”.
E il mio ex vicino di casa del Marocco? Ogni volta che rientrava in Italia aveva un dono per me; tra tutti il mio preferito uno foulard dal taglio triangolare con le cuciture dorate, giallo che sulle punte si accende di verde, rosso e arancione per terminare con delle sottilissime frange. Ora che mi è tornato in mente, mi manca il mio vicino, la sua gentilezza.
Se volete immergervi nel mondo di “The Grand Bizarre” lo trovate su MUBI, la piattaforma dedicata al cinema d’autore, con cui DB d’ESSAI ha una convezione. E per voi, qual è il vostro bizzarro bazarre?