Quanto segue non è una recensione, né un’analisi vera e propria. È piuttosto una riflessione, un’idea che nel definirsi mi ha tenuto impegnato per quattro giorni di fila. In questi quattro giorni ho guardato, uno per ogni giorno, gli ultimi film di Gaspar Noé (Irréversible, Enter the Void, Love, Climax). Ho cercato di individuare all’interno di essi una dimensione specifica, sempre diversa, sulla quale concentrarmi, scrivendo un pensiero che potesse riassumere l’esperienza di questo viaggio poetico in un immaginario che, come ho intravisto io, va per la disfatta. Una ricerca che sembra raggiungere sempre lo scioglimento delle sue premesse, lo svuotamento dei suoi significati, un graduale smontarsi.

 

[Tempo]; Irréversible (2002)

«[…] come immagino che la realtà di una sola notte, anzi, che nemmeno l’intera vita di una persona ne significhi contemporaneamente anche l’intima verità.»
Arthur Schnitzler, Doppio Sogno

Quando ci si riferisce alla “catarsi” in generale si concorda nel ritenere che questo fenomeno abbia a che vedere con un’esperienza che purifica lo spettatore, alleviandolo da un carico emozionale nocivo. Questo, a grandi linee, avverrebbe attraverso la fruizione di uno spettacolo all’interno del quale la rappresentazione delle emozioni si risolve in un ripristino emotivo e morale di un rinnovato stato di grazia. Il tempo distrugge tutto: non lo si può ignorare, opera su di noi una violenza.

Irréversible costringe lo spettatore a un percorso peculiare; il tempo rimane lineare, a cambiare è la disposizione degli eventi, raccolti in piccoli blocchi e invertiti cronologicamente. La carica spaventosa viene annullata subito dopo la presa di coscienza che quanto andremo a vedere si risolverà prima del formarsi di qualsiasi tipo di apice tensionale. I primi 55 minuti consistono in una sequela di violenza, abusi, morte, corse. E quando la scena più terribile arriva, l’evento a cui siamo stati preparati fin da subito, attraverso un passato futuribile, nella sua estenuante durata, lo spettatore non ha più nulla di cui purificarsi. Il restante del film è la costruzione a passo di gambero di una storia come tante, di individui capaci di passioni lievi, sussurrate. Così ci si rende contro, al contrario, di come la furia nasconda l’amore, di come il male non è causale. La concretezza degli eventi iniziali, così efferati e confusi, lascia spazio a una storia via via più chiara e comprensibile, ma che si fa evanescente, impalpabile.

La catarsi subisce come un’interruzione; non brusca, ma lenta, divenendo via via insignificante. C’è un salto incolmabile tra la dimensione pubblica, fatta di violenze, e quella privata, luogo dei sentimenti, di raccoglimento. La storia ci pacifica, ma trasporta anche in un passato-eden di cui conosciamo già l’esito: “praemeditatio futurorum malorum lenit eorum adventum”, una tecnica che permette di lenire i mali futuri conoscendoli in anticipo, per un’arte di evitare il dolore.

 

[Spazio]; Enter the Void (2009)

[…] quest’arte del rilassamento divenne essa stessa la base di un’immensa rivelazione, giacché all’improvviso mi apparve chiaro che qualcosa nello spirito di quel rilassamento – nel raggiungimento di un’apertura di spirito perfetta, fiduciosa e amorevole – è l’essenza stessa e lo scopo della vita. Il nostro compito nella vita consiste precisamente in una forma di abbandono della paura e delle aspettative, un tentativo di donarsi esclusivamente all’impatto del presente.
Michael Pollan, Come cambiare la tua mente

Abbiamo imparato ad affettare il tempo, a lasciare che il ricordo del futuro ci guarisca ancora prima di soffrire. Non sarà semplice pertanto attraversare la prossima dimensione: lo spazio. Enter the Void ha dalla sua parte la forma-viaggio del racconto, ed è attraverso essa che facciamo i conti con questa dimensione. Ci si trova fin da subito ad avere a che fare con uno spazio effettivo, reale che entra il collisione con quello mentale, immaginato, trasformato dalle droghe.

Ci si sposta costantemente verso ogni direzione e senso, entrando, uscendo, girando; dal particolare al generale fino all’universale e poi di nuovo al microcosmo. I luoghi si fanno spazi contraddittori, delle possibilità: a volte per ripercorrere e ripercorrersi, altre per analizzare o solo per guardare curiosamente le cose essere. Nel film seguiamo un soggetto schizo che funziona per parallelismi e analogie a lui solo coerenti, ormai intaccato e condizionato dai ricordi e dalle esperienze vissute. Per questo, egli non può far altro che riversarsi da un ricordo all’altro, in una commistione di avvenimenti passati e presenti che sono sintesi di drammi, rivisitazioni di traumi, spaccati di eros bislacchi.

La luce stessa è materia, guida il viaggio in un contropercorso, si fa zona d’influenza per i limiti dell’azione, la comprime e la espande. Sono i luoghi e gli spazi ad abitare i personaggi che restano; questi ultimi non possono che esserne inglobati, calati e basta, soggiogati. Il vuoto allora diventa saturo, pieno di colori, suggestioni, presenza; è abitato e percorso, dice di un vuoto pienissimo, che non è fine, ma incita a una rinascita, la suggerisce e la sprona.

La ripetizione e il riadattamento delle situazioni e dei luoghi, le riconversioni delle versioni dei singoli eventi, fanno fiorire di volta in volta nuove esperienze e significati.
Tutto ciò che da traumi viene attraversato si scopre essere una via alternativa per esperire anche l’amore, a partire da una carne attraversata dallo spirito-energia che diveniamo quando ci troviamo al grado zero di esistenza, fino al luogo primigenio: l’utero, spazio del concepimento, via che si percorre.

Antonio Scialpi
Classe '98, anima queer della festa. È appassionato di antropologia e semiotica. Adora filarsi film strani che non vede nessuno perché ha tempo da perdere. Scrive poesie, gli perdonerete l'astrusità. Lo trovate sui social come @dasbaglio. Può sembrare snob, ma è soltanto la resting bitch face.

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