{Foglio Margine è spazio di condivisione e discussione. Questo è il primo di una serie di articoli in cui verranno invitati a intervenire alcune figure (scrittori, artisti, amici) di cui ho grande stima. Negli articoli in cui li ospiterò mi limiterò a commentare brevemente un film, estrapolandone spunti e riflessioni da cui partire, per parlare di oggi e di domani, di come le cose mutano parlandoci.}

November” di Rainer Sarnet (Estonia, 2017)

“Listen.
With faint dry sound,
Like steps of passing ghosts,
The leaves, frost-crisp’d, break from the trees
And fall.”
‘November Night’, Adelaide Crapsey

Se penso al mese di Novembre ho in mente una forma adunca, un ripiegarsi su se stessi, un terminare a punta, la possibilità di ferire. Ma anche e soprattutto la celebrazione, il ricordo dei morti.
L’immaginario simbolico evocato dal titolo è infatti ampiamente presente nel film, ambientato nell’Estonia del XIX secolo, in un villaggio che sembra sospeso, una terra infera collocata nel mezzo delle cose, in cui convivono binomi che nella realtà non riusciamo più a tenere insieme: la vita e la morte, il pagano e il cristiano. Ci viene offerta un’impressione di iperrealismo (grazie alla sublime fotografia di Mart Taniel) a cui dobbiamo quasi subito affiancare l’esistenza della magia, una magia che ha le sue regole e i suoi pegni, così come la terra ha bisogno di fatiche per dare frutti. E proprio nei confronti del lavoro agricolo i contadini del villaggio utilizzano la magia: creano dei kratt, creature composte da attrezzi da lavoro, animate dal diavolo stesso in cambio dell’anima del padrone, affinché queste lo aiutino; gli uomini da quel momento in poi non possono fare altro che vivere una vita a metà. Queste creature devono servire, hanno bisogno di avere uno scopo continuo, e muoiono distruggendosi solo quando questo obbligo va a cozzare con i desideri e le aspirazioni irrealizzabili degli uomini. Vengono dipinte personalità strambe, avide, al cui interno spicca però la purezza dei due giovani personaggi principali, Liina e Hans. La prima, nonostante promessa in sposa ad un altro, è innamorata del ragazzo, che però si strugge con altrettanta passione per una giovane baronessa sonnambula.

Un semplicissimo triangolo amoroso è la base di questa fiaba nera, che prosegue però diramandosi in discorsi a volte più ampi, di politica, di appartenenza alla terra, di poesia. Il film sembra quasi diviso in singoli episodi, in cui campeggia sempre un’aura di malinconia, suggerendo l’arrivo imminente di una tragedia. Vediamo i morti tornare, accolti nelle loro vecchie case, mangiare con i parenti in vita, preoccuparsi dei loro averi terreni; una donna in preda alle convulsioni trasfigurarsi in un lupo per muoversi nella notte; la peste personificarsi e venire ingannata come fosse un ladro; la strega anziana convincere un paesano a dare da mangiare i propri escrementi alla sua amata.

Quest’opera, che visivamente fa i conti con le lezioni di Béla Tarr e Pawlikowski, sembra suggerire e augurare una discussione nuova, che ci faccia riflettere sulla parola fiaba, sulla magia, sulle streghe e sul modo in cui questo mondo si specchia nel nostro, in un gioco di rimandi che può diventare possibilità di convivenza.

Per questo oggi ho invitato a intervenire Gaia Giovagnoli, laureata in Antropologia Culturale ed Etnologia, scrittrice, che nel 2018 pubblica la raccolta poetica “Teratophobia” (‘Round Midnight) inaugurando la sua ricerca riguardante i mostri “del quotidiano”, che si evolve oggi verso un immaginario più direttamente fiabesco nel suo nuovo lavoro (inedito) “Babajaga”. È appassionata di tarocchi. La trovate su Instagram come @babagaja_ e @babagaja_tarot

Q: Tu hai preso visione del film: che te ne è parso? Cosa ti ha colpito di più?

A: Uno tra gli aspetti più interessanti di November è sicuramente l’uso del folklore. È messo in scena con una fotografia che ha del fiabesco e dà una sensazione particolarissima di perturbante. Mi sono sinceramente chiesta cosa me lo rendesse così perturbante e ho provato a darmi una risposta. Lo è non perché vediamo all’azione demoni, diavoli, magie, morti. Non è solo questo, almeno. È così perturbante perché abbiamo il privilegio (raro) di vedere demoni, diavoli, magie e morti nel pieno della loro esistenza. Nelle narrazioni contemporanee questi personaggi vengono portati in scena con uno specifico intento estetico, che è quello di renderli elementi di pathos. Vengono traditi, in un certo senso deturpati della loro vera essenza.

Mi spiego meglio: soprattutto nell’horror è tradizione far cozzare il piano di realtà con quello folklorico, che appartiene a un piano diverso, che è quello simbolico. Il “mondo del vero” insedia il “mondo reale” e questo crea un inciampo importante nella trama, è l’elemento che la caratterizza e la fa procedere. Un demone o un fantasma vengono calati volutamente in una cornice razionale perché possano diventare climatici, perché possano creare uno shock. Portando il simbolico nel reale crei un utilissimo cortocircuito. I personaggi del folklore, così come le usanze “strane”, diventano così elementi orrorifici. Il folklore nella narrazione contemporanea viene spesso e volentieri forzato dunque nel contesto del reale con questa precisa funzione estetica. Volutamente lo si immerge nel mondo positivistico, nel modello scientifico-razionale. È in questo mondo che non ammette mistero che può davvero fare paura.

In November invece il folklore è libero di vivere pienamente nel suo piano simbolico. Del tutto. Non viene immerso nel razionale, non viene forzato o usato come pietra di inciampo. Non si cerca lo shock. Si permette al folklore di respirare a pieni polmoni, senza mutilarlo. Il simbolico non viene forzato a un modello esplicativo logico e viene lasciato così com’è. Questo mi è sembrato molto interessante, e mi ha rapito. La magia in November coesiste con il lavoro, si può assoldare un demone per portare a casa il pane. Le persone stesse si muovono in questa complessità del mondo, non hanno bisogno di edulcorare nulla.

Un particolare che mi è piaciuto tanto è stato quello iniziale del ritorno dei morti nelle case, che si siedono a tavola e controllano lo stato dei loro beni, che mangiano e si rifugiano poi nelle saune. Nella mia Romagna si dice che i morti possano tornare di notte se si lascia inavvertitamente la tavola apparecchiata: ci si siedono e provano a ricordare i tempi andati. Pascoli ne fa un bellissimo quadro nella poesia “La tovaglia” (si trova nei “Canti di Castelvecchio”). Una bambina viene avvertita di non lasciare la tovaglia in tavola, perché

“[…] vengono i morti!
i tristi, i pallidi morti!

Entrano, ansimano muti.
Ognuno è tanto mai stanco!
E si fermano seduti
la notte attorno a quel bianco.
Stanno lì sino al domani,
col capo tra le due mani,
senza che nulla si senta,
sotto la lampada spenta.”

Q: Mi colpisce molto il termine “complessità”; le figure che popolano il film sembrano essere totalmente a proprio agio nel muoversi in questo mondo che non esclude nessuna dimensione a discapito di un’altra, che non ha bisogno di farlo per esistere. Parlavamo appunto della magia:

A: In November la magia non è qualcosa di assurdo, di fuori dal normale, di inquietante, anzi: fa completamente parte della vita quotidiana. Convive con il lavoro, si insinua nei ritmi della vita, entra nei discorsi con i vicini. È una risorsa, se non la risorsa per eccellenza. E questo è possibile proprio grazie a quello che indagavamo prima: nel mondo di November non è stato diviso nessun piano dall’altro, tanto che il modello razionale non è onnicomprensivo e schiacciante, e quello simbolico resta un mezzo preziosissimo che non viene mai sacrificato. Complessità. Inoltre nel film la magia è una vera e propria forma di resistenza dei contadini. Vediamo i personaggi muoversi in un mondo senza dio, senza morale, senza possibilità di uscita. Ed è proprio in questo appiattimento disperato che la magia assume tutta la sua carica “salvifica”, risolutiva: spacca dall’interno l’immobilità, crea uno spazio di “agency” per i personaggi che la utilizzano, dà loro un barlume di azione nel mondo. Li fa partecipare alla storia senza restare del tutto passivi. Sono in grado di non lasciarsi scrivere da chi è più forte.

Q: In che modo la magia ci parla nel e del contemporaneo?

A: La magia a mio parere è un mezzo potente. Assiste il piano simbolico, quando non gli viene dato il giusto peso nella vita. Anche oggi. Anche e soprattutto nella nostra società di scienza e ragione assoluta. Se il mondo è solo positivismo e nega una vista diversa, costruendo come fa da secoli un modello esplicativo totalizzante, non inclusivo, la magia dà invece all’individuo la forza, il potere, l’azione, proprio quando l’azione e il potere sono più ridotti o impossibilitati.

La magia aiuta a esistere, anche quando il contesto vuole cancellarti dall’equazione. Ma i contadini di November si ritrovano anche di fronte a un altro grande insegnamento: la magia a volte non può agire. Quando? Se è solo a servizio dell’uomo, delle sue pretese e della sua onnipotenza. A volte l’unica cosa che la magia può fare è ricordarci che esistono cose irriducibili all’umano, che non possiamo manipolare o comprendere. Più volte la magia in November risulta inutilizzabile perché le si chiede proprio di rendere infallibili, in una logica di conquista. Il ragazzo innamorato chiede al suo kratt di conquistare la contessa, ma deve arrendersi: il demone fatto di neve non è lì per lui perché sovrasti qualcuno. La magia ci ricorda che siamo limitati e che è giusto così. Ricorda che esiste il sacro, che è per sua stessa natura “delimitato”, “sacer”, diviso da noi. Non può essere compreso, penetrato, schiavizzato.

Q: Vorrei spostare il focus su un altro aspetto: tarocchi e poesia, come riescono a convivere?

A: Leggo i tarocchi da ormai una decina di anni, e scrivo da sempre. Amo leggere i tarocchi per i loro simboli, per questo loro universo irriducibile. E amo la poesia anche e soprattutto perché è un linguaggio che può sorpassare la lingua comune e fare a meno del razionale. Può non essere schiava del causa-effetto, può originare da terre di mezzo senza doversi piegare a una definizione sola, a un unico modello. La magia e la poesia in questo senso hanno un luogo di origine comune, per me. Sono esperienze oltre l’esperienza: grazie alla narrazione che mettono in atto aiutano le persone a confrontarsi con il caos. Ad accoglierlo, quando è necessario deporre le armi. Ad imbracciarle, quando è il momento. Non inseguono soluzioni facili. Nessun appiattimento.

Q: Un esempio; con quale spirito approcciarsi a queste questioni?

A: Io sono per un assoluto recupero della magia, e per una riflessione seria a riguardo. Quello dei tarocchi è un ambito ingiustamente marginalizzato. Ci sono molti tabù e tutto viene considerato un circo o una truffa ai danni di persone ingenue. Vengono bollati come creduloni o criminali coloro che fanno atti di spiritualità, per sé o per gli altri. Ma è un discorso complesso. Vedo realtà in cui la magia (soprattutto in alcune punte mainstream) è in effetti ridotta a un “do ut des”, come se fosse una merce esotica, ed è forse uno dei motivi per cui continuano a resistere tanti scetticismi. La magia è vista dai più come se fosse una specie di scambio, di compravendita. Faccio un rituale, ottengo un risultato. Chiedo alle carte una cosa, le carte si inginocchiano e mi instillano conoscenza. Leggo i tarocchi, prendo i tuoi soldi e non ti do assolutamente nulla in cambio: solo una nuvola di parole. Ma non è così. Anzi. Leggere i tarocchi non è soltanto dire se domani tornerà il proprio ragazzo, o se si supererà un colloquio. Leggere i tarocchi è entrare in un abisso di simboli. È ottenere una vista diversa e una saggezza, da quei simboli, che quasi nessun altro mezzo può garantire. La spiritualità non è qualcosa di cui ridere. Come in ogni ambito esiste chi se ne approfitta, certo, questo è ovvio e scontato. Ma generalizzare senza profondità non rende giustizia alla materia, ed è un peccato guardare a qualcosa avendo già un pregiudizio sugli occhi. Nei tarocchi, nella magia, nella poesia, quando si infiltra il germe del fanatismo è finita. Chi ha la verità in tasca non accoglierà nessun’altra verità. Chi è convinto che sia tutto inutile non troverà mai un senso a queste pratiche. I tarocchi si trasformano in un gioco per passare il tempo, la magia in un insieme di gesti e oggetti, la poesia in una formula innocua.

Q: Chiudiamo con una proposta sul domani: cosa ti auguri di vedere di diverso?

A: Come società dovremmo imparare un po’ di più a esercitare l’elasticità, a porre in prospettiva la logica e a sondare la capacità di altri approcci, dovremmo mettere alla prova il causa-effetto senza totalizzarlo, insieme al concetto di profitto e di vantaggio. Il rischio è quello di sacrificare la meraviglia e, con lei, il potere necessario del simbolo.
Non dovrebbe essere un atto di coraggio avere una spiritualità. Non dovrebbe essere considerato inutile analizzare con mente aperta delle realtà che esistono proprio oggi, che emergono nel tessuto della nostra società con sempre più insistenza. Che ci piaccia o no il mondo è fatto di confini e di zone impenetrabili, esistono realtà differenti che possono coesistere, come succede nel mondo di November, e c’è sempre qualcosa che come umano non puoi possedere, conoscere, creare a tua immagine. Anche oggi. Così per sempre.
Viviamo in un mondo che vuole essere sempre più positivista, che si vergogna di chi non lo è. Eppure c’è un boom di nuove forme di spiritualità, che ci sbattono in faccia sempre lo stesso tema: non esiste sistema esplicativo che esaurisca davvero il mistero. E va bene così.

Antonio Scialpi
Classe '98, anima queer della festa. È appassionato di antropologia e semiotica. Adora filarsi film strani che non vede nessuno perché ha tempo da perdere. Scrive poesie, gli perdonerete l'astrusità. Lo trovate sui social come @dasbaglio. Può sembrare snob, ma è soltanto la resting bitch face.

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