“The House Is Black” di Forough Farokhzad (Iran, 1963)

“There is no shortage of ugliness in the world.
If man closed his eyes to it,
there would be even more.
But man is a problem solver.”
F. Farokhzad

Un tentativo, quello di definire The House Is Black: un documentario che in soli 20 minuti riesce a creare spunti di riflessione che piombano in un oggi tutt’altro che estraneo, al contrario di come potrebbe sembrare. Un poema visivo, anche, che smuove l’animo e scardina credenze ben radicate con la sua brutale delicatezza. Perfino uno specchio, confronto con la bruttezza di un mondo ingiusto e senza senso. O un’elegia: opera-sguardo, didascalia del quotidiano, attraverso una malinconia che rende leggeri, felici di ciò che c’è.

Una donna si guarda riflessa in una specchio, il suo volto semi coperto dall’hijab: ciò che si vede è quanto le rimane, un occhio piatto, la cui palpebra sembra essersi sciolta. Dove dovrebbe esserci il ponte nasale, un naso non c’è.
L’opera porta lo spettatore in un lebbrosario, un luogo dalle parvenze ostili, soprattutto per chi vive in un mondo ridotto alle definizioni, in cui persiste la fiducia in uno stato “normale” delle cose. Entrare in un lebbrosario può far inorridire.
Abituati alla censura del diverso, si chiudono gli occhi, si sentono i brividi. Ci si rifiuta.
Smentire una credenza è un atto che comporta sforzo, ma predisporsi ad essere smentiti è un altro paio di maniche. Viene chiesto di approcciarsi a quest’opera con la propensione verso la rinuncia, una rinuncia che comporta l’acquisizione di una nuova prospettiva.
Quando si pensa a questo genere di colonie si può immaginare il vivere invano di una società chiusa, emarginata, oppure accettare il viaggio in cui ci accompagna Forough, mettendo da parte le idee prescritte, rinunciando al voyeurismo scientifico, alla paura che ci fa chiudere gli occhi davanti alla bruttezza.

Cos’è brutto, quindi? Secondo i bambini malati di lebbra: “un piede, una mano, una gamba, la faccia”. Bello invece è “il sole, la luna, i fiori, il gioco”. Tutto sembra suggerire questa lezione potente: accettare il fallimento della carne e del corpo, accettarne la bruttezza e vivere per ciò che è veramente bello, ciò che si trova solo fuori dai confini del corpo e che non ci è dovuto –anche se a volte si pensa di sì.
Nonostante questo, viene sempre restituito un ritratto di gratitudine anche verso quella bruttezza che i malati possiedono e che li possiede: uomini e donne pregano e ringraziano Dio per tutte le parti del corpo ricevute. Una voce narrante accompagna la durata dell’opera, alternando poesie della regista, passi della bibbia e del corano; anch’essa muta nel farsi diegetica ed extra-diegetica, in un rovesciamento di natura che confonde. È un uomo, poi una donna, è l’incedere lamentoso di una preghiera e il canto della festa.

Forough crea un poema visivo in costante movimento, alternando i ritmi del montaggio, rendendoli frenetici quando si caricano di valore simbolico e dilatandoli quando vuole che lo sguardo si fermi a guardare lì, dove si assiste a una sottrazione, lì dove a un braccio manca una mano, a una mano mancano le dita, o da un volto manca ciò che lo rende tale.
La gente nella colonia prega, mangia, gioca, ascolta la radio, si sposa, va a scuola. Persiste nei riti così come la società fuori. Vive però una vita più rarefatta, in qualche modo sospesa, perché ricca di gratitudine nonostante l’insensata bruttezza, come se per loro fosse facile sapersi dire “è così, non c’è un motivo”.

Dopo 20 minuti di visione si è ormai totalmente immersi in questa realtà, e quella bruttezza non sembra più spaventosa. Non si può tornare indietro; ormai si ha assistito alla lotta contro lo stato delle cose, combattuta da questi esseri umani con i mezzi più forti a loro disposizione: la gratitudine, la riconoscenza. Li si è visti pregare, ridere, truccarsi, compiere il miracolo contrario: accettarsi. Guardare la comunità chiudere la porta del lazzaretto, nella sequenza finale, e rivelare la scritta “LEPER COLONY”, potrebbe essere per lo spettatore un primo passo verso la conquista di una rinuncia al senso, di una convivenza con la bruttezza nel suo mondo.

Forough Farokhzad è stata una dei poeti più grandi dell’Iran. Quando girò questo documentario aveva poco più di trent’anni. Era il 1963. Quattro anni più tardi sarebbe morta in un incidente d’auto. Gli abitanti della colonia nella quale è stato girato The House Is Black si rifiutarono di credere alla sua morte. Molti ne aspettarono il ritorno, si dice la vedessero nei volti di donne che le somigliavano. La ricomparsa di Forough uscita vittoriosa dalla morte sembrava quindi un’ipotesi per loro totalmente credibile. Anzi, auspicabile.
Proprio a loro la poetessa dedicò quest’opera, “nella speranza di alleviare le loro sofferenze”.

Antonio Scialpi
Classe '98, anima queer della festa. È appassionato di antropologia e semiotica. Adora filarsi film strani che non vede nessuno perché ha tempo da perdere. Scrive poesie, gli perdonerete l'astrusità. Lo trovate sui social come @dasbaglio. Può sembrare snob, ma è soltanto la resting bitch face.

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