Caro,

dopo giorni di interminabili faccende da sbrigare, riesco a scriverti. Sembra impensabile poter riempire gli spazi e i tempi di un’intera giornata lontani dal mondo. Tuttavia, soprattutto quando il tuo microcosmo ruota intorno ai ritmi di una famiglia, qualcosa, nel bene e nel male, ti riempie sempre. Che siano sensazioni positive poco importa, ho imparato a rifuggire, ove possibile, una visione troppo separatista dei due poli. Né bianco né nero ma un continuo intervallarsi di grigi.

Mi torna in mente Pasolini (come può non tornare ciclicamente nella mia vita?) e le sue parole in merito al nostro concetto di nucleo familiare:

“La repressione, l’oppressione, la mancanza di libertà, il conformismo, l’ipocrisia, son tutti strutturati, maturati in seno alle famiglie, perché la famiglia è nata come una piccola difesa, un po’ meschina che fa l’uomo per difendersi dal terrore, dalla paura, dalla fame… È un meccanismo di difesa per cui l’uomo si crea una tana e nella tana fa quello che vuole: il padre opprime i figli ecc…Detto questo, la famiglia è anche il covo delle cose più belle dell’umanità. Le due cose sono orrendamente inestricabili.”

In questo frangente parlo di un modello tradizionale, ancorato a retaggi che fanno parte del nostro immaginario. D’altronde nella vita, soprattutto nel passaggio all’adultità, se non c’è la capacità e la forza di riappacificarsi con la propria storia familiare, il carico da sopportare, a volte, diventa ingestibile. Mai ci si sentirà “liberi”, forse. Che lo si possa fare del tutto è utopistico, ma credo sia ciò a cui tendere. Abbandonare l’idea di ‘aggiustare’ la propria famiglia è fondamentale. Molto spesso ci dicono che non possiamo cambiarla, che dobbiamo accettarla. Ed è vero.

Ma, d’altra parte, cosa o chi impedirebbe di viverne un’altra? Di scegliere una propria piccola tribù? D’altronde la parentela è pressocché inutile quando a mancare è il legame.

Ho sempre avuto particolarmente a cuore, per indole e storia personale, il nucleo degli affetti, l’identità familiare, la differenza che intercorre tra il dovere e la spontaneità di un gesto. Per tali ragioni, un certo tipo di cinema e di immagini mi risuona. Non mi spingo, in questo momento, nel parlare di un mondo verso il quale provo nostalgia ma, per forza di cose, mi è estraneo. Non appartiene alla mia generazione né al presente che conosco. Penso al cinema del maestro Ozu con grande tenerezza e affinità ma non lo potrò mai capire fino in fondo. Il Giappone mi affascina da sempre, rapisce la mia attenzione. Tuttavia, al di là della cultura e di molti aspetti della vita così differenti da quello occidentale, è universale il valore di alcuni sentimenti e sensazioni. E credo sia proprio questo uno dei grandi misteri del mondo. Quanto ci si possa riconoscere, anche in seno a una grande diversità.

In questo periodo ho pensato tanto a un film, partendo dalle mie suggestioni  di cui sopra.

Parlo di Shoplifters (2018) di Kore-eda Hirokazu.

 

Ho sentito, tramite la delicatezza e la semplicità di immagini e dialoghi, la volontà e la forza del legame, dell’affetto puro, avulso dal giudizio e dal costrutto sociale. Ciò che noi difficilmente siamo in grado di vivere fino in fondo per mancanza di possibilità, inglobati in questa giostra di aspettative egoiche ed esteriori. Lontano dal concetto di Lex sub lege libertas (Libertà sotto il freno della legge), la morale e le regole si costruiscono seguendo la legge del cuore, dell’irrazionale, del sentimento. Ovviamente tutto ciò non implica che ogni azione compiuta sia la più giusta agli occhi del mondo -anzi, sotto alcuni aspetti, potremmo trovare molte decisioni discutibili- ma non è questo che interessa.

Tutti i film di Kore-eda esplorano la dimensione dei rapporti personali e in particolare quelli familiari, la memoria e l’identità, il mondo dell’infanzia, la morte e l’elaborazione del lutto. Nel suo cinema, in linea con quello di Ozu, non c’è nessuna ricerca dell’effetto speciale, i movimenti di macchina sono ridotti all’essenziale, la messa in scena risulta sobria. Uno stile che lo colloca fra quei registi che puntano alla sottrazione, rifiutando ogni eccesso ridondante tanto presente in un certo gusto contemporaneo. Il regista non sembra voler dare risposte, ma invita a sondare la complessità dell’esistenza, a esplorare le zone d’ombra che influiscono sulle nostre scelte di vita e sulle nostre relazioni con gli altri. Un cinema che, con leggerezza, si concentra sul reale aprendo spiragli sull’ignoto che c’è in ognuno di noi.

Una strana famiglia, costituita da nonna, due figlie adulte, il marito di una delle due e un bambino a cui si unisce, dopo poco l’inizio del film, una bambina affamata e maltrattata dai genitori. La loro casa sembra più una capanna, piena di oggetti e cianfrusaglie, in disordine e malmessa. Tuttavia ciascuno di loro sembra nutrire una forma autentica di attaccamento a quella dimensione anarchica. Anche qui, infatti, non vigono regole precise. Si beve, si mangia, si gioca buttandosi a terra, ci si taglia i capelli a vicenda, si fa l’amore sul pavimento mentre fuori imperversa un temporale estivo. Tutte le generazioni si ritrovano sotto lo stesso tetto. Si incontrano e si rifugiano in un mondo fuori dal mondo.

Sono dei piccoli ladruncoli: la “nonna” percepisce ancora la pensione del marito morto, la “madre” ha un lavoro part-time che poi perderà, la “sorella” si esibisce in un hostess club preservando una grande dolcezza e ingenuità, il “padre”, a volte, lavora nei cantieri ma, spesso, escogita furti insieme al bambino. In questo si nota il legame tra i due. Il padre non ha nient’altro da insegnare al “figlio”, convincendolo che non ci sia nulla di male nel prendere qualcosa da un negozio finché non appartenga a qualcuno. Il bambino appare sempre più dubbioso, legge continuamente l’unico libro che possiede sulla storia di un pesce che vive nell’oceano. Si interroga sui comportamenti suoi e del resto della famiglia. Le sue perplessità aumentano a causa di  alcuni eventi che rompono la bolla dell’intimità casalinga: la morte improvvisa della nonna (che viene tenuta in casa per paura di dichiarare il decesso alle autorità), il legame protettivo nei confronti della piccola sorellina, la consapevolezza sempre maggiore della differenza tra la sua vita e quella degli altri (guarda i bambini andare a scuola con curiosità).

Durante il furto in un supermercato, insieme alla piccola, sente che qualcosa dovrà irrimediabilmente cambiare. Fa in modo di essere colto in flagrante e, mentre fugge via, inseguito dai poliziotti, si lancia da un ponticello rompendosi una gamba. Un gesto liberatorio, l’unico modo per lasciare una vita che non aveva scelto. Da qui in poi ogni cosa viene a galla. Ci si rapporta con il reale, nella sua crudezza. Un interrogatorio da cui traspaiono diverse visioni dei fatti. Madre e padre, di cui fino a quel momento i tratti predominanti erano la spontaneità e la leggerezza di spirito, sono degli assassini (hanno ucciso l’ex marito di lei per proteggere il loro amore), le domande diventano incalzanti e nessuno di loro sembra percepire fino in fondo il confine tra giusto e sbagliato.

Quale dovrebbe essere, in una dimensione senza legge e senza Stato, l’idea di Bene?

Il bambino sembra contento di entrare a far parte del mondo, tuttavia non tradisce la sua famiglia e si confida con loro in maniera onesta. Si salva, avendo gli strumenti per poterlo fare. Sta diventando grande e decide per sé. Perdona e ama chi lo ha accolto, al di là delle contraddizioni, e allo stesso tempo decide di cambiare vita.

La bambina, ancora troppo piccola per prendere una direzione sua, purtroppo soccombe. Ritorna alla vita precedente, con una madre depressa e oppressa a sua volta, pronta a picchiarla se non obbedisce a tutto ciò che le impone. Senza nessuna cura o attenzione, senza un sorriso o un abbraccio. Lei è l’unica a perdere, da ogni punto di vista. Non sceglie, subisce la legge. Il suo bisogno d’amore viene negato e ignorato.

Si dice che i figli siano delle madri (anche nel film è questo il diktat dell’assistente sociale) ma, in un caso come questo, è difficile essere d’accordo.

Io stessa mi sono trovata in difficoltà davanti a quell’interrogatorio.

La legge dello Stato corrisponde alla legge morale?

Cosa accade nel momento in cui un individuo non possiede gli strumenti per difendersi dal mondo? Quando la famiglia diventa una gabbia, una catena da cui voler scappare, senza poterlo fare?

Il Siracide recita: “Onora tuo padre con tutto il cuore e non dimenticare i dolori di tua madre. Ricorda che essi ti hanno generato; che darai loro in cambio di quanto ti hanno dato?”

Ma se sono proprio il padre e la madre a non soddisfare il desiderio d’amore perché essi stessi incapaci di darne e riceverne? Quali sono i diritti di un figlio?

Non voglio generalizzare e, senza dubbio, ognuno in questa storia ha una propria intima verità. Ed è l’unica che possa esistere. Non ho potuto provare  risentimento o fastidio per nessuno dei componenti della famiglia. Perché, al di là degli errori, la forza del legame è innegabile ed autentica. Chi riesce a vedere davvero l’Altro è libero dal laccio del giudizio verso se stesso e verso il mondo e si apre alla vera compassione (dal greco sympatheia (ovvero la capacità di emozionarsi e provare sentimenti insieme all’altro). Il mondo spesso dimentica la specificità di ogni individuo, la forza del legame e della libertà dell’atto d’amore, annulla il soggetto e conosce il potere come unica forma di dominio. Quei ladruncoli non saranno dei ‘giusti’, ma di sicuro sono umani. Fin troppo.

Nelle lingue che formano la parola compassione non dalla radice sofferenza (passio) bensi dal sostantivo “sentimento”, la parola viene usata con significato quasi identico. Avere compassione (co-sentimento) significa vivere insieme a qualcuno la sua disgrazia, ma anche provare insieme a lui qualsiasi altro sentimento: gioia, angoscia, felicità, dolore.

Così scrisse Milan Kundera e credo sia questa la chiave imprescindibile di qualsiasi vero legame, al di là del bene e del male.

 

Ti abbraccio,

Luisa

 

 

 


Lettere Aperte: Her – Spike Jonze

Luisa Verrienti
Luisa Verrienti: La donna che ama scrivere lettere e spedirle per posta. Un po' fuori dal suo tempo, ma non troppo. Laureata in Filologia e letteratura classica, sempre per rimanere al passo con i tempi! Appassionata di teatro, collabora con la compagnia Teatro dei Veleni di San Cesario (LE), ama la musica e i concerti dal vivo, patita di cinema dalla tenera età. Legge tre libri contemporaneamente perché non riesce a sceglierne uno alla volta. Ama il Giappone, appassionata di anime e manga, fedele al Maestro Miyazaki. Vorrebbe abbandonare il mondo civilizzato per rifugiarsi in una fattoria attorniata da animali e piante. Le piace abbracciare le persone e chiacchierare per ore davanti a un buon tè (anche un bicchiere di vino, per carità!)

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